Ci sono cose impossibili da dimenticare. Come quell’afoso pomeriggio di luglio di qualche anno fa, nello studio dello psichiatra, sotto lo sguardo premuroso e attento dei miei genitori.
Il medico si rivolse a me, con fare teneramente paterno e la saggezza di chi è un po’ più avanti con l’età, dicendo: “Non hai una malattia da cui poter guarire, hai un disturbo da curare”.
Ma sapete come siamo fatti noi ossessivi, non bastano le parole di un professionista, non ci soddisfano appieno, abbiamo bisogno di un altro parere. E così, qualche tempo dopo, ebbi l’occasione di porre, alla mia psicoterapeuta, la fatidica e temutissima domanda: “Dottoressa, dal Disturbo Ossessivo Compulsivo si può guarire?”.
Ricordo ancora la sua testa chinata verso la tastiera del computer e, per la prima volta da quando l’avevo conosciuta, l’evidente difficoltà ad incrociare il mio sguardo. Ben presto arrivò la risposta che tanto avevo desiderato, sebbene mi deluse: uno sghignazzare nervoso, condito con un pizzico di imbarazzo. Tuttavia, superò brillantemente l’impasse e, ricomponendosi, mi chiese: “Anna, hai mai sentito parlare di recovery?”.
Questa domanda, credetemi, mi riportò alla mente l’immagine di quel rarissimo e bellissimo fiore che sboccia in un campo pieno di sterpaglie.
Il termine “recovery” ha origini anglosassoni ed è piuttosto complicata la resa nella lingua italiana. Difatti, spesso lo si trasforma, molto più semplicemente, in “ripresa dopo uno svenimento”, “riaversi, star meglio rispetto ad uno stato precedente”, “recupero dopo una crisi”.
Occorre rammentare che tale concetto, sino agli anni Settanta, ha costituito un vero tabù nel mondo della salute mentale, soprattutto se tradotto, per quell’epoca azzardatamente, in un termine più comune a tutti noi, “guarigione”.
Vedete, in tal senso guarire da un disturbo mentale è possibile ma solo laddove si intenda, per “guarigione”, uno stato in cui un soggetto, nonostante possa talvolta star male, vivere momenti e giornate difficili e manifestare dei sintomi, riesce a portare avanti il suo progetto di vita, senza essere invalidato dal disturbo, a stare in piedi sulle proprie gambe, a pensare e costruire un futuro.
Insomma, quello del “recovery” è un lungo percorso teso a migliorarsi, giorno dopo giorno, ad acquisire nuove consapevolezze, a convivere, senza soccombere, con i propri demoni. Un esempio pratico potrà esserci d’aiuto.
A conclusione di una bella giornata, qualche sera fa mi trovavo a passeggiare tranquillamente insieme a mia sorella: camminavamo lungo un marciapiede, affiancato, a sinistra da un muretto e a destra da una strada percorsa dalle automobili.
Ad un tratto mi sono bloccata: ho iniziato, gradatamente, a desiderare di avvicinarmi sempre più al muretto e di allontanarmi dalla strada. La vedevo come un pericolo, temevo che mi sarei potuta gettare sotto una macchina in corsa.
Mia sorella, attenta osservatrice, ha capito che qualcosa non andava: “Non è un buon momento, vero?”, mi chiese. “Affatto”, le risposi. “È una serata…DOC!”, esclamammo all’unisono.
Subito abbiamo iniziato a ridere di quella paura, con la complicità che ci contraddistingue. E, come se nulla fosse accaduto, abbiamo proseguito, ancora sorridendo, il nostro cammino.
Ecco, alla luce di questa analisi, posso rispondere alle tantissime domande di chi, negli ultimi mesi, mi ha chiesto se fossi realmente guarita dal DOC.
Ebbene sì, sempre intendendo il termine “guarigione” come “recovery”. E voglio anche soddisfare la richiesta di quel ragazzo che, pochi giorni fa, mi ha domandato se mi capitasse ancora di avere delle ricadute: certamente, le ho avute, le ho e le avrò daccapo.
Ciononostante, oggi posso dirlo con orgoglio, evitando tuttavia ridicoli e ridondanti trionfalismi: sono guarita.
Articolo realizzato da Anna, di Storie di una ragazza DOC
per il progetto “Attivismo Digitale“