“Il cielo d’acciaio” mi è piovuto addosso qualche mese fa. Cercavo canzoni che parlassero di psicoterapia ed è così che mi sono imbattuta in questo brano, scoprendo Romeo Lippi, psicoterapeuta e voce del gruppo Le Ferite. Ho scoperto anche che la canzone è nata in seguito a un colloquio con il suo supervisore, Edoardo Giusti, e da un suo consiglio: scrivere un testo sul processo di cura. E così è stato. Indagando, sono venuta anche a conoscenza del perché del “cielo d’acciaio”: un cielo che nasce dopo l’ascolto di un suo simile, “Iron Sky” di Paolo Nutini. A volte le metafore arrivano così, di colpo, e capisci subito che sono quelle giuste. Era un’espressione perfetta per descrivere cosa si prova quando si arriva in terapia. Il peso, l’oppressione, la sensazione di sentirsi costantemente schiacciati e di non riuscire a respirare. Come quei cieli grigi, compatti, che non lasciano passare neanche un raggio di sole e sembrano premerti addosso. Proprio come fossero d’acciaio, insomma. E se dal cielo la luce non filtra, allora bisogna farla passare da qualche altra parte, creare squarci e spiragli.
“E siamo qui, sotto questo cielo d’acciaio
E siamo qui, come luci nel buio”
Quando si apre la porta della stanza della terapia si accende quella luce nel buio. Potrà non sembrarci così da subito, molto probabilmente. Ci vorranno tempo, perseveranza e pazienza, e potrebbe anche capitare di volerla richiudere, quella porta, e di non riaprirla più. Succede perché accendere certe luci non è così semplice come potrebbe sembrare, non è come premere un interruttore ma è più come tentare, al buio, di accendere un fuoco sotto la pioggia. Per questo ci affidiamo a un terapeuta, a qualcuno che abbia imparato a tenere al riparo la propria legna e intanto possa farci luce. Non importa più se al momento non siamo in grado di illuminarci da soli, la sua luce può bastare per due, per tutto il tempo necessario a imparare come si fa.
“E siamo qui, a dirci ancora grazie
Nonostante le battaglie perse, ad inseguire i nostri sogni”
C’è una cosa che si chiama alleanza terapeutica, ed è quel rapporto particolare che si crea tra paziente e terapeuta. È quello che ci fa scegliere di restare, di recarci a quell’appuntamento fisso in cui possiamo mostrarci senza timori. Come ci insegna Bordin, alla base ci sono fiducia, rispetto e obiettivi condivisi. In quella stanza avviene l’incontro tra due esseri umani, due persone dotate di una propria storia, che danno vita a un legame affettivo fondato sulla cooperazione.
“E siamo qui nonostante”: sono parole fondamentali che per me rappresentano in pieno questo legame a doppio filo, una consapevolezza reciproca delle capacità dell’altro. Io sono sempre qui anche se qualche obiettivo ancora non sono riuscito a raggiungerlo, sono qui nonostante inciampi e cada spesso, ma so che grazie a te, un passo alla volta, imparerò a stare in piedi da solo. Io sono sempre qui, non ti lascio solo perché qualcosa non è andato come previsto, prenditi il tuo tempo, domani proveremo ancora, io ci credo. “Siamo qui nonostante”.
“Questo inverno, questo senso di non abbastanza, io ti giuro passerà
Stammi accanto, in questo inferno, in questo pretendere qualche cosa che non c’è”
A volte, da pazienti, si deve fare un atto di fede. Credere a quelle parole che ci vengono rivolte anche se sul momento non siamo in grado di crederci da soli. È sempre quel fuoco che per ora illumina per due. Non sarà così per sempre, fidati. Sentirsele ripetere all’infinito, quelle parole che finora abbiamo ci sono state rivolte troppo poco: sei abbastanza, sei abbastanza, sei abbastanza. Alla fine, si sciolgono anche quelle nevi che sembravano perenni, l’inverno finisce. Arriva la primavera e la vediamo come fosse la prima volta.
Da terapeuti, bisogna raccogliere quella preghiera, a volte muta, del non abbandono. Bisogna attraversare quell’inferno, quello sulla terra, insieme a chi ci rivolge quello sguardo disperato e riempirlo di nuova speranza.
È un dialogo continuo, un tendersi di mani, un disbrogliarsi di nodi.
“E siamo qui, a provare a dirci tutto
E siamo qui, con tutto che sembra niente”
Siamo solo due persone in una stanza, con nient’altro che noi stessi, eppure siamo tutto quello che serve, qui e ora.
E alla fine, cosa succede?
“E quando arriverai alla fine del percorso scoprirai
Che non ci sono tutte le risposte ai tuoi perché
E quando accetterai tutto questo profondamente
Sentirai il cambiamento che esplode dentro te”
Alla fine, alcune cose resteranno senza risposta, eppure, incredibilmente, non sarà più così importante. Accettare e accettarsi, è questo lo scopo del viaggio. Capire che respirare può non fare male, che comunque andiamo bene anche se abbiamo il fiato corto, che possiamo riuscire a rendere il cielo leggero.
Alla fine del percorso, alza lo sguardo: c’è il sole.
Articolo scritto da Annalisa
per il progetto “Attivismo Digitale“