Siamo esseri sociali. È una considerazione che veniva fatta già ai tempi di Aristotele nel IV secolo a.C., che più o meno possiamo dire essere circa 2500 anni fa. E non sono pochi!
Siamo esseri sociali: l’ambiente in cui veniamo al mondo di influenza.
Lo respiriamo e lo facciamo nostro, con le nostre azioni lo modifichiamo e ne veniamo al contempo modificati, in un processo circolare che a mano a mano va a dispiegare la nostra storia di vita.
Le persone che incontriamo, le voci che ascoltiamo, le parole che ci vengono dette, anche gli sguardi e i gesti che osserviamo e ci vengono rivolti, ci influenzano e li facciamo nostri.
Solo che non sempre queste voci, queste parole, questi sguardi, sono gesti d’amore.
La discriminazione può assumere tante forme e può riguardare così tante cose: il nostro aspetto, la nostra religione, il nostro genere, la nostra sessualità… anche la nostra salute mentale.
Perché lo stigma del pregiudizio circonda ancora oggi tutte queste cose. E appartenere ad una minoranza non è per niente facile quando devi affrontare, giorno dopo giorno, tutte queste difficoltà.
E allora ci si nasconde, ci si vergogna. Ci si sente anche in colpa. Perché se ascolti continuamente che la tua esistenza è un errore, beh, alla fine dopo un po’ finisci anche per crederci.
Proprio qui entrano in gioco tantissimi fattori psicologici che hanno diversi nomi: omofobia, sessismo, razzismo che diventano tutti interiorizzati. Li facciamo nostri, anche se apparteniamo a quella minoranza. Finiamo per crederci, diventano la nostra realtà: “Se sei una donna sei debole”, “Se sei gay sei sbagliato”, “Se soffri di depressione sei pesante”, “Tornatene al tuo paese”.
Tutte queste assunzioni entrano a far parte del nostro vocabolario sociale, ogni micro-aggressione subita si somma con la precedente, fino a diventare una matassa di cui non si riesce più a ritrovare l’inizio, che non ha più una fine.
Il Minority Stress è proprio questo: definisce uno stato di stress continuo e sequenziale causato dal pregiudizio e dalla discriminazione derivanti dall’appartenenza a una minoranza sociale e culturale.
E questo stress ha un impatto sulla salute dell’individuo: la continua esperienza di discriminazione proveniente dall’esterno determina, da un lato, una vigilanza costante verso l’ambiente, che viene percepito come pericoloso, dall’altro determina una vera e propria internalizzazione di queste esperienze negative, che vengono fatte proprie.
Tutti questi elementi sono dei veri e propri fattori di rischio per la salute delle persone coinvolte: si possono sviluppare isolamento, ansia, depressione, problemi dell’immagine corporea e dell’accettazione del sé, difficoltà nella costruzione dell’identità, problemi sociali.
E la lista potrebbe continuare all’infinito. Perché se senti qualcuno dirti che non vali abbastanza ogni giorno, alla fine finisci per crederci. E questo ha conseguenze devastanti.
Questo ciclo, però, può essere spezzato: perché veniamo modificati dall’ambiente, ma al tempo stesso abbiamo anche il potere di modificare ciò che ci circonda. Di migliorare noi stessi e il mondo.
E allora, pratichiamo un po’ di gentilezza. A partire da noi stessi, piano piano, sbrogliamo la matassa che ci blocca nel pregiudizio e nel dolore, nell’esclusione e nell’isolamento. Perché il cambiamento è possibile e parte da noi.
Fonte: Brooks, V.R. (1981). The theory of minority stress. In: Brooks VR, editor. Minority stress and lesbian women. Lexington (MA): Lexington Books; p. 71–90.
Scritto da Angelica Pipitò
per il progetto Attivismo digitale