21 Dicembre 2021

Oggi vorrei provare ad affrontare questo argomento usando come mezzo la mia esperienza personale: ho iniziato a soffrire di DOC ormai molto tempo fa… ne sono passati di anni e di esperienze insieme a una buona dose di disperazione per arrivare a scrivere questo articolo con una consapevolezza che prima non mi apparteneva.

 Il rendersi conto di avere una patologia mentale non è stato immediato, ha significato anni “persi” alla ricerca di una spiegazione, o meglio di una via di fuga, da quelle dinamiche interiori che mi distruggevano, ma che nella mente di una bambina prima e di una ragazza poi, rappresentavano qualcosa da nascondere, quasi a indicare una versione difettata di me stessa che volevo tanto cambiare, per cercare di essere come “gli altri”, peccato che più si combatte e scaccia una parte di noi, senza ascoltarla, e più questa si accolla, in un circolo vizioso senza fine.

Ma perché parlarne potrebbe cambiare qualcosa?
Perché oggi guardo quella ragazzina sola, spersa e tanto spaventata e le direi che non c’è niente di misterioso in lei, che niente è perduto per sempre.
Ecco, forse se parlassimo del benessere mentale, e di conseguenza del disagio, eviteremmo di considerarci difettati, pazzi, ma raggiungeremmo la consapevolezza necessaria, che mi rendo conto adesso, a distanza di 10 anni, essere “la” risposta che tanto cercavo.
O meglio, il punto di partenza: “Non sei pazza, e non sei sola. Starai meglio e ti aiuterò ad avere il supporto per uscirne”.
Sarebbe forse bastata questa frase per evitarmi molte sofferenze e percorsi tortuosi, ma siccome indietro non si può tornare, si può solo sperare che andando avanti lo stigma sui disturbi mentali venga sradicato; troppe volte ho negato a me stessa l’evidenza per paura, ma altro non è che non conoscenza, parlarne ci salva da questa ignoranza.

Può prendere molte forme: “gli psicofarmaci ti drogano,  puoi risolvere senza, butti soldi in psicoterapia, è tutto un business…”.
L’elenco potrebbe continuare, come le scuse per non riconoscere dignità a patologie invisibili. E’ facile dire frasi come “smettila con questi farmaci”, più difficile è dialogare con una persona, provare a riconoscere lo sforzo e la fatica, perché no, non è tutto un capriccio per sentirsi “euforici”, anzi, infiniti sono stati i periodi di tentata accettazione per liberarmi dai miti e dalle false credenze legati a questi argomenti.

 E’ strano come, spesso, mi sia sentita quasi in dovere di fornire le prove di stare sufficientemente male per aver bisogno di prendere farmaci e andare in terapia, perché i sorrisi e gli impegni portati a termine nel quotidiano “smentivano” il fatto che potessi avere dei problemi.   
Ecco, la cosa che viene spesso dimenticata è che gli esseri umani in quanto tali non hanno un’etichetta attaccata addosso che li rende una cosa sola: le ore passate nel loop delle compulsioni e del rimuginio, dei pensieri ossessivi, del sentirsi senza speranza, un caso così disperato e grave da non potersi mai sentire meglio, della paura di perdere il controllo, dei pensieri così insistenti e angoscianti da rendere tutto nero, sono forse una contraddizione perché posso anche uscire, sorridere e studiare, avere dei giorni al massimo ed essere serena? 

In tutto ciò penso a quante sono le vittorie e le sconfitte che mi sono portata a casa, non meno importanti perché non visibili agli occhi altrui.
I paragoni per la lotta a chi sta peggio, alla condizione “ideale” e probabilmente “disperata” per avere bisogno di vedere uno psichiatra e/o psicoterapeuta, non servono a niente, se non a sminuire un problema che comporta molte volte una lotta giornaliera, oltre a una vita segnata inevitabilmente da ricordi inquinati da una versione di se stessi che soffriva per cose che si sarebbero potute evitare o smorzare, sarebbe bastata un po’ di empatia e rispetto per cose che sono (purtroppo ma anche per fortuna) difficili da capire da chi non le vive.

La vergogna e il peso del giudizio altrui hanno pesato così tanto per troppo tempo, ed è stato anche grazie  all’affiancamento di professionisti che mi sono sentita per la prima volta vista, anziché giudicata frettolosamente.
E forse basterebbe questo, un po’ di umanità nel vederci a vicenda, condividendo i nostri punti deboli e i nostri pezzi “difettati”: magari la risposta allo stigma sociale sta nella condivisione.

Mi sento quasi grata alle mie difficoltà per avermi mostrato quanto anche il “work in progress” nel proprio percorso personale possa condurre a sorprese inaspettate, scoprendo una nuova versione di me stessa. La strada è ancora lunga, ma ringrazio la terapia per avermi permesso di comprendere quanto ciascuno di noi ha la continua possibilità di reinventarsi, perché “ogni nuovo giorno è il primo giorno del resto della mia vita”. Non voglio più pensare agli errori commessi, al tempo perso senza sapere “che cosa” mi tormentasse, al senso di vergogna e colpa, inutile, provato verso me stessa.

Basterebbe che parlassimo di salute mentale: nessuno dovrebbe mai più sentirsi sbagliato per quello che prova, avvicinandoci ai nostri “mostri” scopriremo che fanno meno paura.
Affetto, condivisione, relazione, accettazione e tolleranza: valori che ho scoperto possibili, ma soprattutto necessari per combattere la solitudine e la disperazione, senza ridurci a fredde definizioni: se posso fare qualcosa per vivere meglio il mio variegato mondo interno intendo farlo, e non ho bisogno di giustificarmi per questo.

Articolo realizzato da Sara 
per il progetto “Attivismo Digitale