È passato poco meno di un anno da quando ho deciso che avrei studiato psicologia e adesso è arrivato il momento tanto atteso: l’immatricolazione. Fin qui, niente di strano, è quello che fanno in tanti una volta finite le superiori. Ma se vi dicessi che non sono un’adolescente, che ho ventisette anni e che sono già laureata in tutt’altro? Beh, adesso posso affermare che non c’è niente di strano neanche in questo, ma ce ne ho messo di tempo per capirlo.
Quando racconto questa cosa c’è una domanda che solitamente mi viene fatta, prevedibile ma lecita, lo comprendo: “perché?”.
Mi è stato chiaro fin dall’inizio che io avrei potuto rispondere in due modi. Avrei potuto mentire oppure dire la verità. Avrei potuto imbastire una storia semplice, banale, un cambio di programma, un interesse per la materia sopraggiunto negli ultimi tempi, il desiderio di studiare qualcosa di nuovo. Tanto lo sapevano tutti che avevo sempre amato stare sui libri, nessuno si sarebbe meravigliato. Ma mi è stato chiaro anche che così avrei mentito per prima cosa a me stessa, che mi sarei nascosta per qualcosa di cui mi vergognavo. Avrei fatto una delle scelte più importanti della mia vita dietro una maschera, comodamente al sicuro. Avrei tolto valore, ancora una volta, a ciò che ero. È per questo che ho scelto la verità fin dal primo momento, quella che mi fa essere vulnerabile in modo estremo ma che dà dignità a ogni passo fatto fin qui. Quella che mi fa dire: “ci sono stata, so cosa significa essere lì”. Una risposta che spesso fa sgranare gli occhi, che porta alle frecciatine di qualcuno che non comprende come chi ha avuto necessità di stare su quella poltrona possa, adesso, stare sulla poltrona opposta ad ascoltare qualcun altro.
C’è una frase di Freud che mi sono portata dietro fin da quando ho preso questa decisione e che ogni tanto ripeto a qualcuno: “Lo psicoterapeuta deve essere sufficientemente sano, ed essere stato in odore di malattia, tanto da comprendere quella dell’altro, in particolare la malattia di vivere”.
Ecco perché lo faccio, e perché so di poterlo fare. Ciò che c’è stato prima non è qualcosa che mi può precludere la possibilità di svolgere questo lavoro, né che mi priva delle capacità necessarie. Anzi. È esattamente per quello che mi ha portata lì, su quella prima poltrona rossa, che io ho preso questa decisione. Per aver trovato qualcuno che si sia preso cura di un dolore che non era più contenibile e aver compreso che accompagnare un essere umano in questo percorso sarebbe stata la cosa migliore che avrei potuto fare.
Non si cancella quello che è stato e il dolore non ci rende migliori. Il dolore logora dentro e ti sviscera pezzo a pezzo, però possiamo essere noi a dargli un significato, a far sì che possa servire, in qualche modo. Il dolore non è qualcosa che si cura, non solo, almeno, ma è qualcosa di cui prendersi cura. Sono due cose che si possono intrecciare ma che hanno diverso significato. Quando si pensa a una cura si pensa a un rimedio, a qualcosa che elimini ciò che non va. Aver cura è invece dare importanza, è accogliere e legittimare l’esistenza.
La vita ci mette davanti a esperienze impreviste, ma se c’è una cosa che ho imparato è che, anche se fa immensamente paura, può essere sempre il momento di reinventarsi, anche se questo vuol dire andar contro consuetudini che procedono per tappe prestabilite, contro stereotipi e pregiudizi.
La parola “cura” ha un’etimologia incerta, qualche studioso antico la fa risalire al latino “cor”, cuore. È solo una supposizione, ma è una teoria che mi piace. Perché è questo che c’è al centro della terapia: il cuore. Anzi, due. È questo tipo di cura che ho avuto la fortuna di sperimentare, che mi ha permesso di arrivare fin qui e desiderare di poter fare altrettanto. È qui che sta il significato più profondo del prendersi cura di. Avere a cuore.
Scritto da vitefralerighe
per il progetto Attivismo digitale