È stato solo quando dovetti lasciare medicina che mi accorsi di quanto la mia identità fosse legata alla mia professione. Ho sempre desiderato essere una dottoressa fin da ragazzina, quando aiutavo a far nascere piccoli alpaca nella fattoria di famiglia. Poi sono diventata una studentessa di medicina e, infine, ho ottenuto la specializzazione in neurologia, nella struttura che pensavo come la migliore di tutte.
Quando mi venne fatta la diagnosi di disturbo bipolare proprio qualche settimana prima della laurea, mi dissi che non aveva importanza. Ero sul punto di realizzare un sogno che avevo da una vita e non avrei lasciato che niente ostacolasse la mia riuscita.
La depressione emerse dopo pochi giorni dall’inizio della mia specializzazione in neurologia. Settimane dopo cominciai ad avere difficoltà a leggere: sedevo nella sala con un foglio applicato sullo schermo del computer per costringere i miei occhi a seguire le righe del testo. Il punteggio dei miei test scese raggiungendo percentuali molto basse. Cominciai ad avere problemi nel seguire una conversazione e a ricordare le cose. Commisi degli errori – pericolosi – e fui messa in malattia.
Ero decisa a tornare ai miei studi al più presto possibile. A malincuore frequentai un programma terapeutico diurno: dopo otto settimane tornai al lavoro. Due mesi dopo, fui messa nuovamente in malattia. Diventò una routine: tornavo al mio lavoro solo per crollare nuovamente nel giro di qualche settimana. A questo punto, la fiducia in me stessa cominciava a vacillare. Ero la prima della classe, la prima degli studenti, riuscivo a fare bene le cose, specialmente nell’ambito della medicina. Tuttavia ora non ci riuscivo più. Non più.
Rinunciare alla mia precedente identità
Mentre i miei compagni proseguivano senza problemi il loro anno di tirocinio e si diplomavano, io non ero in grado di portare a termine nemmeno un solo mese. Per la prima volta nella mia vita, ero rimasta indietro.
Era ormai chiaro che non sarei stata in grado di finire il mio anno di tirocinio (figuriamoci la specializzazione quadriennale in neurologia). Ebbene, questo era quello che pensavano le persone intorno a me ed io avevo messo la testa sotto la sabbia. Ci vollero altri sei mesi di persuasione da parte di amici, famiglia e terapeuti perché io finalmente vedessi ciò che era così ovvio a tutti gli altri: ogni tentativo di tornare a studiare medicina costituiva un rischio per la mia salute e per la mia incolumità.
Mi recai nell’ufficio del direttore del mio programma e gli dissi che me ne andavo per sempre. Non mi sembrò sorpreso. Ma quando uscii dal suo ufficio mi sentii come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Dieci minuti prima ero un dottore con una carriera promettente. Cosa ero ora? Chi ero ora?
Qualche settimana dopo, andai a trovare i miei genitori in Messico. Come presi posto sull’aereo, un uomo anziano e gentile si sedette accanto a me e cominciò a chiacchierare. Mi chiese cosa facevo nella vita ed io scoppiai a piangere. Per la prima volta non avevo una risposta.
Trovare La Mia Nuova Normalità
Cominciai a dare diverse risposte, ma nessuna calzava. Se dicevo che avevo una disabilità venivo guardata dall’alto al basso. Se dicevo che ero una dottoressa, mi veniva chiesto quale era la mia specializzazione. Alla fine, cominciai a dire che ero una scrittrice.
Scrivere per me cominciò come un hobby. Durante un episodio ipomaniacale, mi venne un’idea che poteva essere uno spunto per un romanzo, quindi lo scrissi. Quando lasciai ufficialmente la specializzazione in neurologia, avevo scritto due romanzi e numerose brevi storie. Scrivere mi aiutava a superare i miei sentimenti di perdita e di insicurezza e mi dava qualcosa intorno al quale pianificare le mie giornate. Pensai che avrebbe potuto essere qualcosa che potevo perseguire come una seconda carriera.
Ma c’era un grande problema: non ero una scrittrice molto capace.
Ero una scienziata. Sapevo come scrivere rapporti di laboratorio, non storie. In più, la competizione per arrivare alla pubblicazione era molto più dura di quanto avessi mai immaginato. Non riuscii a pubblicare nemmeno una storia.
Ogni volta che dovevo dire a uno sconosciuto che ero una scrittrice sentivo il mio cuore stringersi molto forte. Poi, un giorno, mentre stavo di malumore in un angolo a un party, qualcuno mi chiese cosa mi piaceva fare invece della solita domanda “quale lavoro fai?”. Cominciammo a parlare di scrittura, musica e della gioia di vedere un alpaca appena nato muovere i suoi primi tremolanti passi. La prima volta che apprezzavo una conversazione con un estraneo da quando avevo ricevuto la mia diagnosi e ciò mi fece capire qualcosa di importante: io non vengo definita soltanto attraverso il mio lavoro.
La mia mancanza di riconoscimenti tangibili non sminuisce il mio valore intrinseco. Ho ridefinito la mia normalità, rivendicato la mia opinione di valore. Dalle ceneri della mia vecchia mentalità ho costruito una nuova identità, una che sia meno legata ai concreti simboli del successo che all’interezza del mio essere.
Ho imparato come commettere errori, come chiedere aiuto e come amare me stessa anche in mezzo a rifiuti e fallimenti. Anche se non avrei mai scelto questo percorso di mia spontanea volontà ora sono una persona migliore, più forte e più compassionevole.
Testo realizzato dal gruppo “Inglese Avanzato” di Club Itaca Milano, centro per l’autonomia socio lavorativa di persone con un disturbo mentale maggiore. Tratto da Redefining My Normal After My Diagnosis – NAMI