Ripensate mai a quando eravate bambini? Mi è capitato proprio ieri, ricordavo con nostalgia e un velo di malinconia le mie giornate a scuola. In particolare, quelle in cui c’era un compito in classe o un’interrogazione ma io non mi sentivo all’altezza, non ero preparata al 100%. E così a volte capitava che chiedessi ai miei genitori di rimanere a casa, perché avevo paura di non farcela, per prendere tempo e ripetere in modo più accurato, per sentirmi finalmente pronta.
“In questo modo la prossima volta sarà un successo”, poi però non cambiava nulla, credevo sempre di non essere preparata come le studentesse “modello”, quelle che idealizzavo nella mia mente fanciullesca. Il pomeriggio del giorno in cui ti eri assentata arrivava la telefonata del tuo insostituibile compagno di banco, “Ma sai che il professore è stato davvero buono? Le domande erano semplicissime!”. E in quel momento avresti voluto morderti i gomiti. “Maledizione, perché non sono andata a scuola?”.
Vi starete chiedendo quale sia il nesso con il Disturbo Ossessivo Compulsivo, giusto? Ecco, in questi anni, grazie alle terapie, ho imparato a evitare di evitare. Invece, quando stavo male, il fulcro delle giornate era proprio l’evitamento, per scappare a gambe levate dalla situazione che mi creava paura.
E così, a poco a poco, senza esserne pienamente cosciente, ho evitato di attraversare la strada per timore che mi sarei gettata sotto una macchina, di mangiare per timore di soffocare, di avvicinarmi alla tromba delle scale per timore che mi sarei buttata giù, ecc. Pensate, ero arrivata a non guardare neanche con la coda dell’occhio ciò che per me costituiva un “pericolo”, per – ancora una volta – evitare che arrivasse quel pensiero orrendo.
E se la situazione da noi terribilmente temuta non fosse poi così rischiosa? Come facciamo a capirlo se continuiamo a sfuggirle? Sì, è vero, la evitiamo e avvertiamo un beneficio immediato. Avete ragione, però badate bene che l’evitamento conferma la pericolosità della circostanza e ci prepara al prossimo, irrinunciabile, evitamento.
Il giorno in cui decisi di chiedere aiuto a un professionista mia madre, per tentare di distrarmi dai miei pensieri ossessivi, mi portò a casa del nonno. In cucina c’era una finestra aperta: subito scattò in me lo stato d’allerta. Pericolo, scappa. Poi però, in un momento di lucidità, sapendo – in una parte infinitesimale del mio cervello – che non avrei mai fatto nulla di brutto, anziché andarmene, mi avvicinai gradualmente alla finestra, la toccai, guardai fuori e, ahimè, terrorizzata, corsi da mia madre ad abbracciarla.
“L’ho toccata e ho guardato il panorama”, le dissi. “Ciò significa che sono pazza, ho intenzione di buttarmi giù! Aiutami!”. Mia madre, con estrema tranquillità, mi rispose: “L’hai toccata e hai guardato, ottimo. Dopo hai fatto qualcosa di male?”. “No!”, le risposi con quel poco di fiato che mi rimaneva in gola. La guardai e abbozzai un timido sorriso, mi aveva fatto riflettere.
Forse l’Anna di ieri non avrebbe mai scritto queste parole, però leggete cosa ha da dirvi l’Anna di oggi: si può evitare di vivere per paura di morire? No, ma come ha detto Virginia Woolf, scrittrice e attivista britannica: “Non puoi trovare pace evitando di vivere”. Credete abbia torto? Io per nulla.
Anna, Storie di una ragazza DOC
Progetto Attivismo Digitale