28 Agosto 2019

Cosa significa guarire? Tornare come nuovi o tornare come eravamo prima?
Molte persone, me compresa, hanno fatto un altro percorso di guarigione, lo chiamiamo recovery. Una sorta di trasformazione durante la quale il mio vecchio modo di essere a poco a poco se n’è andato e n’è emerso uno nuovo, ma andiamo con ordine. Avevo 17 anni, ero al liceo ed ero la figlia più grande di una numerosa famiglia di operai. La mia famiglia, i miei amici, la mia condizione di studentessa lavoratrice, i miei valori, la mia sessualità, la mia spiritualità: tutto concorreva di fare di me proprio Pat: un individuo, una personalità unica.

Questa è l’immagine [disegna un fiore] che rappresenta come mi vedevano gli altri e come mi sentivo io a quell’epoca. È un fiore, un fiore integro. Al centro del fiore ci sono io, c’è il mio nome “Pat”, e ogni petalo rappresenta un aspetto di quello che ero. La mia famiglia, i miei amici, i miei valori, la mia religione, la mia sessualità e poi c’è un petalo vuoto perché nell’essere “Pat” faceva parte anche l’indeterminatezza del mio futuro. E chi ha 17 anni non sa che cosa gli riserva il futuro; io non avevo certezze, però avevo speranze e sogni: volevo diventare allenatrice di atletica e avrei potuto farlo. Non avevo neanche grossi problemi a superare gli esami, anche se tutto avrei detto, tranne che sarei diventata psicologa e che avrei scritto dei libri. L’immagine di ragazza promettente che avevo di me incominciò a vacillare quell’inverno.
Ero in palestra, stavo giocando una partita di basket e all’improvviso mi accorsi che non riuscivo a prendere la palla, non riscrivo a coordinare i movimenti, ma io avrei voluto prenderla e, invece, mi cadeva dalle mani. Giorno dopo giorno gli oggetti intorno a me incominciarono ad apparirmi diversi: sedie e tavoli avevano qualcosa di minaccioso, assumevano dei contorni obliqui e scuri e mi facevano paura. Non riuscivo più a credere che le cose potessero essere utili: un tavolo non era più un qualcosa su cui appoggiare gli oggetti, ma era un insieme di angoli retti rivolti contro di me in modo tale che mi incutevano terrore.
Giorno dopo giorno, anche le persone mi sembravano cambiare, non riuscivo a capire cosa mi dicevano, non riuscivo a capire le parole e fissavo meccanicamente le loro bocche e mi chiedevo: “Com’è possibile che dei cacciaviti hanno preso il posto di quelli che dovrebbero essere dei denti normali?”. Non riuscivo più a credere che le persone fossero veramente quello che dicevano di essere.

Quello che ricordo di più è la paura. Una paura straordinaria che non mi lasciava dormire per giorni e la convinzione che stavo per essere uccisa e che avevo bisogno di difendermi. A quel punto, gli adulti attorno a me pensarono che ero impazzita e mi ritrovai, in men che non si dica, dentro l’ascensore di un ospedale psichiatrico, accompagnata da due infermieri con il camice bianco. Dopo dieci giorni in reparto chiesi allo psichiatra quale era la mia diagnosi e lui, seduto dietro la sua scrivania, rispose: “Signorina Deegan, lei ha una malattia chiamata schizofrenia. La schizofrenia è come il diabete e, come i diabetici devono curarsi per tutta la vita, lei dovrà curarsi per tutta la vita. Se andrà in un centro di riabilitazione residenziale penso che saprà adattarsi a tutto questo”. Adattarsi. Adattarsi non è proprio una cosa che una ragazza vorrebbe fare.
I pensieri correvano, cercavo di farmi venire in mente una persona famosa che avesse avuto la schizofrenia e che fosse guarita, ma niente. Neanche una. Intanto lo psichiatra continuava a parlare e dentro mi sentivo montare rabbia. Lo so, non è una grande idea arrabbiarsi in uno studio di uno psichiatra, ma nella mia testa, silenziosamente, si stavano formando queste parole: “Tu stai sbagliando. Io non sono schizofrenica”. Adesso capisco che quello psichiatra non mi stava facendo una diagnosi, ma mi stava comunicando una prognosi di disperazione.

Quest’altra figura [disegna un fiore con i petali staccati] rappresenta come mi vedevano quelli intorno a me, dopo aver ricevuto la mia diagnosi di schizofrenia. Prima ero una persona nella sua interezza, mentre ora ero una persona malata, una persona lesionata. Eppure io, io ero ancora io. Ero gravemente turbata, certo, ma sentivo nel profondo di essere ancora me stessa. Gli operatori, i dottori, i miei amici e la mia famiglia sembravano però essersi dimenticati della Pat che avevano conosciuto ed erano molto più interessanti alla me schizofrenica. Al centro del fiore non c’era più il mio nome, c’era la mia diagnosi. Poi guardate, il petalo vuoto non c’è più in questo secondo fiore perché, una volta ricevuta la mia bella diagnosi di schizofrenia, gli operatori intorno a me si comportavano come se il mio futuro, il mio destino, fosse già determinato. Non c’era più spazio per i miei sogni, per le mie aspettative. Ero una schizofrenica e la mia vita, come quella di tutti gli schizofrenici, sarebbe stata caratterizzata da un decorso cronico e da un deterioramento, che avrebbe portato nel tempo a una condizione di demenza. È stata questa sentenza, questa morte prima della morte che ho rifiutato quando le parole “tu stai sbagliando” si sono formate silenziosamente dentro di me. La mia rabbia, il mio bisogno di affermare la mia dignità erano il segno che ero viva, attiva, resiliente e che volevo combattere per una vita che avesse significato e speranza.

Quella che qualcuno avrebbe potuto leggere come negazione o come mancanza di consapevolezza della mia malattia, per me è stato il punto di svolta nel mio percorso verso la guarigione. Una volta uscita dallo studio dello psichiatra, sono rimasta per un po’ ferma nel corridoio e mi è passato davanti agli occhi un grande mazzo di chiavi che era attaccato alla cintura di un uomo del personale dell’ospedale. Uno di quei grossi mazzi con le chiavi di tutte le porte ed è stato lì che mi sono trovata a pensare: “Io diventerò la dottoressa Deegan e lavorerò per cambiare il sistema della Salute Mentale, in modo che nessuno si senta più ferito”. Non ho parlato a nessuno di questo mio sogno, figuratevi se avessi detto agli operatori che mi seguivano che io, diciottenne schizofrenica cronica con tre ricoveri alle spalle, diplomata con fatica al college avrei voluto laurearmi, diventare dottore e rivoluzionare la psichiatria: per fortuna che me lo sono tenuta per me.

Ecco io adesso vorrei dirvi che una volta messa a fuoco la mia missione ho cominciato a marciare spedita verso la guarigione, ma non è così. Il recovery non funziona come i miracoli. La verità è che, una volta tornata a casa dall’ospedale, ritornai a starmene seduta a fumare sulla stessa poltrona dove ero rimasta seduta a fumare nei mesi precedenti. La descrizione che avrebbe potuto fare mia madre di me: “Posso vedere le sue dita diventate gialle dalla nicotina. Posso vederla camminare con il suo passo rigido, strascicato. Gli occhi guardano sempre nel vuoto. Il suo sguardo è fisso. Esce dal letto alle 8 di mattina e si siede sulla sua sedia, tutti i giorni. Fuma sigarette su sigarette. Le sigarette danno il segno del tempo che passa e sono la prova che il tempo trascorre, un piccolo sollievo. A mezzogiorno c’è il pranzo e alle 13 torna a dormire fino alle 15 quando ritorna a fumare sulla sua poltrona. Dopo c’è la cena e alle 20 il momento lungamente atteso di tornare a dormire. La stessa cosa si ripeterà il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Mese dopo mese”.

Mia nonna mi veniva a trovare tutti i giorni e tutti i giorni mi chiedeva se volevo andare a fare la spesa con lei e tutti i giorni le dicevo di no. Me lo chiedeva una volta sola al giorno e questo lo rendeva un invito reale e non un modo di dire. Poi un giorno, non so dire perché, le dissi di sì. Sì, andavo a fare la spesa. Ho solo spinto il carrello, ma quel giorno ho fatto il mio primo passo verso la guarigione. Poi altri piccoli passi seguirono, mi fu consigliato di iscrivermi a un corso di letteratura al college vicino a casa ed accettai. Difficilissimo, sfide dure: gestire l’ansia e le voci che mi disturbavano durante le ore di lezione. Non c’erano all’ora gruppi di auto aiuto, ero veramente sola. Allora ho dovuto attivarmi per trovare dei modi per affrontare i problemi; ho fatto tante prove e tanti errori, ma alla fine sono riuscita a creare una strategia e delle pratiche di autocura che, nel mio caso, hanno funzionato. Adesso sarebbe troppo lungo raccontarvi tutto però, per esempio, ho imparato presto che le droghe, l’alcol e anche certe medicine che si comprano in farmacia senza ricetta per me non vanno bene. Con le relazioni ho imparato a gestire il tempo sia per stare con gli altri sia per stare da sola. Ho imparato anche a rendermi utile. Mi accorsi che potevo essere utile e non soltanto essere accudita. È stato importante avere uno schema giornaliero, soprattutto all’inizio quando la mia vita sembrava sgretolarsi, è stato utile avere una routine quotidiana, un motivo per alzarsi la mattina. Leggere, tenermi informata, mi è servito per dare un senso all’esperienza che stavo vivendo. Anche la mia religione è stata una risorsa importante.

Sono stati poi utili alla mia guarigione soprattutto gli ambienti tolleranti. Questo l’ho capito per caso, quando ho lasciato il mio appartamento dove vivevo da sola per condividerne uno con degli hippie. I miei nuovi coinquilini erano del tutto aperti a ogni tipo di esperienza particolare e la loro visione del mondo comprendeva esperienze come viaggi astrali, déjà-vu, stati crepuscolari. In un ambiente così tollerante le mie esperienze psicotiche non erano per niente considerate devianti e non preoccupavano nessuno. Erano persone non invadenti, molto gentili e mi davano lo spazio per vivere la mia pazzia. È stato in questo ambiente tollerante che ho imparato che la psicosi non segue segnali o indicazioni scritti su chissà quale mappa, ma ha una sua certa topografia. Ho imparato che se uno ritorna nel paesaggio della psicosi più volte può imparare a conoscerlo o a non temerlo o a trovare dei modi per attraversarlo. Se fossi stata costretta a comportarmi in un modo normale non avrei mai imparato queste importanti lezioni sul prendermi cura di me stessa.

Ho dovuto sviluppare una relazione nuova con il tempo. Ricordo quando aspettavo che finisse un’ora di lezione: guardavo l’orologio e mi ripetevo “posso farcela solo per un altro minuto” e ogni piccolo successo mi ha risvegliato la fiducia nella mia capacità di resistere, di perseverare. Ho imparato a dirmi: “tra poco sarà domani. Un altro giorno arriverà” e questa frase ha preso una grande importanza per me. Arriverà domani vuol dire che sì, oggi è stato difficile e doloroso, ma è anche passato.

La gente mi chiede spesso se le medicine sono state utili alla mia guarigione: non direi particolarmente utili, se non per la loro capacità di farmi dormire nei momenti più difficili. La chiave, per me, è stata usare i farmaci insieme alle strategie e alle pratiche di autocura. Mi sono inventata tante strategie per fronteggiare i sintomi: tappi e cuffie per fermare le voci, evitare certi ambienti o argomenti e fare esercizio fisico. Recovery per me ha voluto dire superare la vergogna che era diventata parte di me. Come molte persone all’inizio del loro percorso di guarigione, io volevo tornare una persona normale, non volevo prendere le medicine e non volevo stare con i matti. Mi sono rifiutata per anni di uscire insieme a persone che avessero avuto storie psichiatriche, la mia massima aspirazione per anni è stata di passare per una persona normale. Questa volontà di tenere la mia storia segreta non veniva solo da me però, c’era una specie di pressione sociale che mi portava a tenere la mia storia nascosta. Questo mi ha messo in situazioni difficili, come durante il mio primo tirocinio in un ospedale psichiatrico, dove il primo giorno ho avuto una crisi di panico quando il portone di ferro si è chiuso alle mie spalle. Mi sembrava di essere prigioniera di una specie di flashback, una persona veniva portata in una stanza di contenzione e soltanto pochi anni prima stava capitando a me.

Tenere tutto nascosto era come vivere in una bugia e io mi stancai di avere vergogna. Incominciai a frequentare gruppi di sopravvissuti alla psichiatria e di attivisti del recovery e, grazie a questi incontri, capii che non era un mio problema se la gente voleva che io fossi delle due cose una: o una paziente psichiatrica o una psicologa. Non era un mio problema se la gente voleva che io mi mettessi un cappello piuttosto che un altro per sentirsi a loro agio. Io ero una persona unica. Ero una persona con una storia psichiatrica che era anche una psicologa clinica e, cosa più importante, non ero sola. C’erano altre persone come me e, se ci fossimo aiutati a vicenda, avremmo potuto vivere le nostre vite con orgoglio.

Quest’ultima figura rappresenta la trasformazione di me [disegna un fiore]. Il fiore è tornato intero e al centro del fiore c’è il mio nome, non c’è più la mia diagnosi. C’è ancora un petalo vuoto perché ho un futuro aperto e ignoto. C’è poi un petalo nuovo, il petalo delle mie vulnerabilità. Adesso non sento di avere una malattia mentale in remissione o in fase residuale che si possa prima o poi riattivare però, come molte persone, vivo con alcune vulnerabilità, con alcuni punti di debolezza. Utilizzo ancora tutti i giorni le strategie e le pratiche di autocura per continuare a star bene. Non sono tornata come prima, anche se avrei voluto qualche volta.

Recovery, guarire non significa tornare quello che eravamo. È un percorso verso il diventare nuovi, verso lo scoprire i nostri limiti e come questi ci possono aprire a nuove possibilità. Protagonista è la persona, il suo ruolo è attivo e il compito degli operatori è quello di aiutarlo a sviluppare le sue capacità. Ognuno con il suo viaggio perché non c’è una ricetta o un manuale che va bene per tutti. Sono una persona, non una malattia. Posso usare tutto quello che ho imparato nel mio viaggio verso la guarigione per continuare a condurre una vita piena e stimolante. Recovery è un processo di rinnovamento e trasformazione. Non sono più la stessa persona che ero prima di “impazzire”, la mia pazzia è stata un fuoco che ho attraversato e che mi ha cambiato.