Comincia un poco alla volta.
All’inizio non te ne rendi conto, soprattutto se sei in un ambiente di lavoro nuovo. Le cose da imparare sono tante, qualche errore ci può stare.
Se l’esperienza e le competenze stanno aumentando, com’è possibile che lo stiano facendo anche i rimproveri e i commenti negativi? Allora parte l’esame di coscienza: ti sei dimenticata qualcosa? Hai svolto tutti i compiti assegnati? hai risposto male? Sei stata sgarbata? Cominci a ricontrollare tutte le operazioni due volte, ogni procedura svolta con la massima attenzione: sorridi, grazie, prego, ma figurati, non ti preoccupare lo faccio io, ma certo che ti posso sostituire!
Niente. A ricordarti tutto quello che sbagli ci sono i post it sulla scrivania la mattina, le lamentele a voce, i messaggi e gli audio lunghissimi su Whatsapp a qualsiasi ora del giorno.
“Non sei abbastanza brava”.
“Sei distratta”.
“Probabilmente non è il lavoro per te, forse dovresti fare altro”.
Quando possibile, inizi a fare dei riscontri ed emergono verità che bruciano dentro come tante fiammelle: quella pratica non l’hai compilata te, quel giorno quel compito specifico spettava a un’altra persona, la calligrafia su quel modulo sbagliato non è la tua.
È in questo momento che nella tua testa inizia una doppia narrazione. Una è quella di chi comincia a stancarsi, quella che prova a ribattere e a dire che non è così, perché dopotutto c’è anche la consapevolezza di valere qualcosa. L’altra però, tuo malgrado, nonostante l’evidenza non può non domandarsi se abbiano tutti ragione. Forse non è abbastanza sul serio. Se lo dicono tutti deve essere vero.
E quando le hai pensate tutte e hai passato al vaglio ogni possibile spiegazione, si staglia nitida, finalmente, una parola.
Mobbing.
Una di quelle cose che capitano sempre agli altri, uno di quei paroloni che si sentono alla televisione.
Ne ho letto a lungo in rete e ci ho ritrovato molte similitudini, non saprei se a sufficienza per assumere pienamente questo nome, ma ho anche capito che in ogni caso è una definizione molto blanda, un nome dato a un comportamento che è difficile da provare, perché tanto quando sono tutti contro uno quell’uno è da solo davanti al mondo, e chi vuoi che gli creda? E poi, peggio ancora: si può provare se il disagio provocato fosse così intenso da aver resa necessaria una psicoterapia. Ma se uno in terapia ci andasse già? Quanto potrebbe essere considerata affidabile la testimonianza di chi già in passato si è sentito così fragile da dover chiedere aiuto?
Mi sono arrovellata su queste domande più e più volte, desiderando l’esistenza di un sistema diverso. Poi però ho capito anche che, etichetta o meno da apporre alla situazione, se una cosa fa male fa male e basta. Comunque la si chiami, che sia riconosciuta o meno. Perché se c’è una cosa di cui sono sicura è che il dolore gratuito non dovrebbe esistere, soprattutto quello provocato da esseri umani su altri esseri umani.
Quello che ti colpisce dentro e ti svuota come persona, che tende a sminuire il tuo valore. Nell’incontro con l’altro ci avviciniamo a un mondo intero, a una storia complessa che non possiamo sapere cosa racconta esattamente, quali sono gli eventi che l’hanno scritta. Non possiamo sapere quali saranno gli effetti delle nostre parole, le conseguenze dei nostri comportamenti. Possono scivolare via oppure incagliarsi in profondità.
L’impatto psicologico di un luogo in cui passiamo molte ore al giorno, quasi tutti i giorni, può essere devastante. Fu Konrad Lorenz a coniare il termine mobbing negli anni Settanta: con questa parola indicò il comportamento aggressivo di un membro di una certa specie nei confronti di un altro. Si trattava di lotta per la sopravvivenza, di adattamento all’ambiente. Nonostante l’evoluzione, alcune caratteristiche comportamentali non si sono perse, e ci ritroviamo esseri umani contro esseri umani. Forse non sempre consapevolmente, o forse è solo quello che voglio sperare.
Allo stesso tempo penso a tutte le persone che quotidianamente si svegliano con una morsa allo stomaco, che si devono recare sul posto di lavoro con le lacrime agli occhi e un senso di nausea perché sanno che ad aspettarle c’è solo un grande vuoto dove riecheggiano forti e chiari il senso di colpa e la vergogna. Persone corrose dall’impotenza perché non tutti possono permettersi il lusso di andarsene.
Ecco perché, ancora una volta, c’è bisogno di dire a voce alta e di raccontare una storia.
Una per tutti.
Articolo di Annalisa
Progetto Attivismo Digitale