05 Novembre 2021

Ho acquistato e divorato in pochi giorni, appena uscito, le 400 pagine di Una vita degna di essere vissuta (Marsha M. Linehan, Raffaello Cortina, 2021): un libro che a mio avviso dovrebbe essere presente in tutte le biblioteche che si occupano di psicologia. 

La sua autrice, la psicoterapeuta Marsha M, Linehan, è colei che ha messo a punto la DBT (Dialectical Behaviour Therapy – Terapia dialettico comportamentale), una delle poche con efficacia dimostrata nel trattamento del disturbo borderline di personalità, considerato per molti anni dagli psicologi di tutto il mondo uno dei disturbi più difficili da trattare. In questo libro- memorial, la Linehan confessa quello che per molti anni aveva tenuto nascosto: di essere stata lei stessa una ragazza con comportamenti autolesivi e suicidari (una delle caratteristiche principali del disturbo).

Non mi soffermerò qui nel descrivere i criteri diagnostici del DBP, peraltro facilmente reperibili su un’edizione aggiornata del DSM, ma piuttosto a evidenziare alcuni aspetti per me molto significativi dell’opera. Voglio fare una piccola premessa: sono rimasta un po’ delusa dal poco spazio che l’autrice ha dedicato a descrivere la sua sofferenza psichica; e non per uno sterile voyerismo, quanto perché mi avrebbe aiutato a comprenderne meglio la natura multiforme e complessa. Linehan invece indugia molto poco nel raccontare il suo dolore, il suo libro è piuttosto una storia di vita professionale, accademica e personale ma solo fin dove il personale serve a raccontare meglio la nascita della DBT.

Terapia ancora troppo poco diffusa in Italia, la DBT è una terapia con un alto grado di complessità: si potrebbe dire che al centro c’è l’équipe, composta dai pazienti, un terapeuta che guida le sedute di gruppo, un terapeuta individuale per ogni paziente e un coach, che è un vero e proprio “allenatore” con cui esercitare le abilità proposte dalla psicoterapia, oltre che una persona a disposizione h. 24 (nel protocollo originario) per arginare i momenti più acuti. Alcuni centri di salute mentale in Italia propongono protocolli simili, così come alcune case di cure private, certo la DBT non è una terapia individuale e per questo richiede un apparato più complesso di organizzazione.

Ma torniamo a Marsha, alla sua vita, e a due aspetti che fin dalle prime pagine del libro mi hanno colpito profondamente perché credo che siano due aspetti centrali, che riguardano lei come persona ma che sono entrati a gamba tesa a far parte del suo progetto terapeutico. E qui sta il vulnus, se vulnus c’è in questa monumentale opera che ha l’ideazione di un modello psicoterapico: che queste due caratteristiche innate, prettamente individuali, sono un “bagaglio” della Linenhan ma non certo di tutti.

La prima è la fede: Linehan è fin da bambina accompagnata da una fede profondissima, la stessa che le farà dire, nel colmo della disperazione del suo secondo ricovero: “Uscirò da questo inferno, Dio. E aiuterò gli altri a uscirne”. La fede di Marsha, che la accompagna in tutta la sua vita fino a farla diventare una sorta di suora laica prima e una maestra zen poi, è, Io credo, un elemento non trascurabile nel comprendere quella fiducia verso la guarigione che è un prerequisito della guarigione stessa. Purtroppo però, non tutte le persone che soffrono di un disagio psichico hanno questa fiducia. Anzi, spesso sono persone spossate da lunghi anni di sofferenza in cui hanno perso le speranze. Difficile, mi pare, acquisire in modo volontario un aspetto così intimo come la fede/fiducia in qualcosa di più grande e infinitamente amorevole. Resta il fatto che questa fede è anche il centro da cui sgorga, a mio modo di vedere, un’altra delle parole chiave del discorso di Marsha Linehan: accettazione.

Questa seconda parola credo nasca di più nel suo incontro assai proficuo, con lo zen (solo un accenno: la meditazione di consapevolezza, mindfulness, entra a far parte del protocollo DBT proprio dopo l’incontro di Linehan con lo zen). Dall’accettazione del proprio malessere, profonda, intima, autentica, può nascere il cambiamento. Qui credo si sveli il cuore più innovativo del pensiero di Linehan, che in effetti si propone come la terapeuta della terapia dialettico comportamentale: la dialettica che anima la terapia è appunto quella tra l’accettazione della propria condizione e la speculare, necessaria, inscindibile spinta al cambiamento, sostenuta da vere e proprie abilità (skills) che vengono insegnate nel corso della terapia. Se sull’apprendimento della fede ho qualche perplessità in più, ho più fiducia (mi si perdoni il gioco di parole) nell’acquisizione di un’accettazione da cui possa sgorgare il cambiamento.

Marsha Linehan resta a mio avviso una donna eccezionale, con alcune caratteristiche (la caparbietà, la costanza, la perseveranza anche di fronte ai fallimenti più grandi) che spesso l’esile struttura psichica del borderline, che fatica a riconoscersi in un’identità precisa, non ha. Diciamo che se davvero Lineahn è stata o è una paziente borderline, lo è sicuramente ad altissimo funzionamento, un funzionamento che le ha permesso di non abbandonare mai la promessa fatta a Dio e a se stessa. Dall’alto di questo suo forte carattere, ci insegna che passo passo tante cose possano essere cambiate se, prima, abbiamo la forza di accettarle per come sono.

Camilla
Progetto Attivismo Digitale