È come se la protagonista fosse corrosa dall’amore che la circonda, perché non riesce ad accoglierlo, né a gestirlo. E questa sua fragilità è forse quella che ci arreca più sofferenza, mentre leggiamo: nessuno riesce ad aiutarla.
Ma la protagonista non ci parla solo di lei, del suo dolore, perché s’interroga anche sulle ragioni che hanno spinto tanti altri a togliersi la vita: s’interroga sulla tragedia dei suicidi in Groenlandia. Ci guida nella sua ricerca, le siamo accanto mentre trova su internet i dati relativi alla mortalità per suicidio e spinge anche noi a voler capire.
Siamo lì con lei, quando riflette sul legame con le stagioni, essendo riportato un picco di morti in primavera ed estate, picco che gli studi legano al metabolismo della serotonina, che varia con la luce e che “potrebbe avere qualche influsso sui comportamenti impulsivi e aggressivi, e dunque su violenza e suicidi.”
E poi ascoltiamo la sua riflessione, quella che mi ha motivato ad approfondire il tema e a condividere, con questo scritto, quanto letto ed elaborato: “Ma la luce non può essere il fattore decisivo: la luce c’è sempre stata, mentre i suicidi hanno subito un’impennata solo dopo l’epoca coloniale.” Informandoci, in una nota, che la Groenlandia è stata una colonia danese dal 1721 al 1953. Da quel momento, come scrive la traduttrice Francesca Turri, nella sua Postfazione, “sono seguite le politiche di danesizzazione e modernizzazione favorite dalla Danimarca – a cui la Groenlandia, facente parte del Rigsfaellesskab, il commonwealth danese, rimane ancora oggi legata.”
Mi fermo su questa riflessione per dare spazio a due articoli di letteratura, che prendono in considerazione una revisione di diversi dati raccolti e pubblicati sul tema, e possono fornirci alcune ipotesi e descrizioni di questo tragico e preoccupante fenomeno.
Il contesto generale è che tra il 1980 e il 2018 la Groenlandia ha registrato uno dei tassi di suicidio più alti al mondo, con un tasso medio di 96 suicidi ogni 100.000 abitanti. Questa crescita rispecchia effettivamente la rapida transizione sociale nel periodo postcoloniale. [2]
C’è stato un picco negli anni ’80, al quale è poi seguita una lenta diminuzione. Il livello, però, rimane ancora elevato e, soprattutto, ciò che preoccupa è l’alto rischio nei giovani e il costante aumento del tasso tra le donne. Dato questo da correlarsi all’incremento dell’utilizzo di metodi violenti da parte di quest’ultime, metodi che hanno un tasso di letalità maggiore, rispetto ai non violenti (avvelenamento). [2] Inoltre le indagini sullo stato di salute nella popolazione in Groenlandia, hanno connesso l’esperienza frequente di problemi di alcool in famiglia e l’abuso sessuale, con una probabilità fino a quattro volte più alta di pensieri suicidali e quindi, anche l’elevata percentuale di giovani donne esposte ad abusi sessuali potrebbe essere un fattore contribuente all’aumento dei tassi di suicidio femminile. [2]
Per quanto riguarda, invece, il suicidio giovanile, questo ha cominciato ad aumentare nelle generazioni nate negli anni ’50 ed è più che quadruplicato nei successivi dieci anni. [2]
Le discontinuità culturali legate alla colonizzazione e ai rapidi cambiamenti sociali si correlano ai problemi legati all’alcol e alle esperienze infantili avverse e non colpiscono solo l’individuo, ma possono avere conseguenze cumulative e di lunga durata attraverso le generazioni (traumi intergenerazionali), che hanno particolare impatto sulla salute mentale dei giovani. [2]
Altro elemento importante a emergere, è il notevole divario di conoscenze tra i fattori di rischio e i fattori protettivi e gli autori incoraggiano la ricerca futura a concentrarsi non tanto sull’analisi del danno, sicuramente necessaria, ma soprattutto su quella dei punti di forza, da incrementare quali fattori di protezione rispetto al suicidio e ai comportamenti suicidari. [1] Se l’analisi del rischio, infatti, mostra l’esistenza di molti fattori individuali, familiari e sociali (quali stress, problemi di salute e salute mentale, esperienze traumatiche, esperienze infantili avverse, rotture o conflitti relazionali), uno dei pochi fattori protettivi evidenziati nei diversi studi analizzati, l’essere nato tra il 1901 e il 1950, va a inserirsi nella medesima riflessione che la protagonista del libro ci ha consegnato.
Gli autori scrivono che le differenze nel rischio di suicidio dipendano dal fatto che un individuo sia nato tra il 1901 e il 1950, o successivamente, tra il 1961 e il 1980, sottolineando l’impatto che la storia coloniale e la rapida modernizzazione hanno sul suicidio. Le persone nate nella prima fascia avevano più probabilità di essere cresciute in una piccola comunità con genitori che vivevano di pesca e caccia. Ma il fatto che studi su periodi successivi riportino che questi tipi di occupazione siano diventati dei fattori di rischio, può dunque riflettere le conseguenze del rapido processo di modernizzazione, in cui posizioni che precedentemente erano altamente riconosciute (cacciatori e pescatori), vengono successivamente svalutate in una società che favorisce istruzione e lavoro qualificato. [1]
Oggi in Groenlandia si registrano tra i 40 e i 60 suicidi ogni anno. E il monitoraggio esiste proprio per andare a evidenziare le migliori strategie di prevenzione. [2] La connessione alla cultura è stata dunque identificata come un fattore importante che favorisce la resilienza e il miglioramento della salute mentale. L’associazione tra cultura e resilienza differisce però da una generazione all’altra: le generazioni più anziane si sentono più connesse al proprio patrimonio culturale, aumentando l’effetto protettivo, mentre le generazioni più giovani sperimentano una connessione culturale più distorta, che le rende più vulnerabili alle rapide transizioni sociali, rispetto alle generazioni più anziane. [2]
Allora, i risultati mettono l’accento sull’importanza di concentrarsi sulla prevenzione del suicidio tra i giovani, provando a ridurre le esperienze infantili avverse, attraverso il potenziamento delle capacità della comunità, vale a dire, la capacità di fornire ambienti sani e di prevenire e gestire le crisi. [2]
Ma come?
Un rapporto del 2021 sulla salute mentale dei giovani ha confermato che i giovani con forti legami culturali hanno uno stato di salute mentale migliore rispetto a quelli che non hanno tali legami. [1] Molti interventi tra le popolazioni indigene si stanno dunque concentrando su aspetti quali il comprendere la propria storia, la trasmissione intergenerazionale di conoscenze e di valori tradizionali e il favorire la pratica delle abilità tradizionali e dunque i vissuti di sentirsi utili e ben integrati. [1]
In conclusione, ritengo che le due parole che meglio sintetizzino quanto osservato e descritto fin qui siano Rispetto e Identità. Perché quando ci avviciniamo a un cambiamento, o quando proponiamo un cambiamento, dovremmo sempre interrogarci su come attuarlo nel rispetto della nostra, o dell’altrui, identità, di quelli che sono stati fino a quel momento i valori fondanti la persona, la cultura e il pensiero. Senza poi dimenticarcene mentre il cambiamento procede.
Credo che un cambiamento sano non voglia dire spogliarsi del proprio abito, per indossare quello di qualcun altro, ma provare a cucirli insieme, integrando ciò che ci manca o desideriamo, nel rispetto della forma di partenza.
Penso che internet e la possibilità di volare, siano i due elementi che più ci hanno dato l’impressione di poter annullare ogni distanza. Eppure ci sono luoghi che restano ancora lontani.
In Groenlandia, da sempre, luce e buio si alternano in modo tanto diverso da qui. L’uomo nasce e cresce legato ai ritmi della propria terra, dell’ambiente che lo circonda e questo legame lo condiziona, per forza di cose, nel corso degli anni, della storia individuale e transgenerazionale, andando a rappresentare una qualità, una peculiarità di quella determinata persona e cultura.
Cosa si può fare allora perché questa peculiarità nel tempo si evolva, ma senza sradicarsi dal terreno che le ha dato vita?
Non dovremmo mai dimenticare di porci questa domanda.
Articolo di Lara Dell’Este
per il progetto “Attivismo Digitale”