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Itaca blog
10 Settembre 2024

Pazienti psichici autori di reato

A intervalli regolari, un fatto di cronaca riporta il tema sotto i riflettori: tra i più recenti e con maggiore eco, l’omicidio della Dr.ssa Capovani a Pisa. L’attenzione – dai discorsi sotto gli ombrelloni fino al dibattito politico – si concentra sul concetto di imputabilità: è corretto diminuire la pena o addirittura assolvere chi al momento del reato era parzialmente o totalmente incapace di intendere e volere, a causa di un disturbo psichico? Il nostro Parlamento sta esaminando più di una proposta di legge sul tema, di parti politiche diverse (cfr. 3/3/2023 Antoniozzi / Fratelli d’Italia e 26/4/2023 Magi / +Europa).

Vi sembrerà paradossale, ma io – madre di un giovane detenuto, con 20 procedimenti penali a suo carico, che ha beneficiato di sconti di pena – sono molto poco appassionata al dibattito sull’imputabilità. Mi preme molto di più il tema del diritto alla cura dei pazienti psichici autori di reato, perché il disturbo a cui è condannato mio figlio, se non viene curato, è una pena molto più grande e più duratura del carcere.

Iniziamo parlando di prevenzione. L’assassino della Dr.ssa Capovani ha 35 anni: su di lui si è detto di tutto, ma qualcuno ha ragionato sulle cure che ha ricevuto quando aveva 30, 25, 23 anni… l’età di mio figlio? Spesso i nostri Servizi di Salute Mentale sono assolutamente inadeguati a trattare disturbi psichici complessi, sono attrezzati per i casi più semplici o per cui è sufficiente un farmaco. Sono sopraffatti da un gran numero di nuovi bisogni, come le difficoltà psicologiche generate dal Covid. A fatica reggono la routine, quando si presenta un caso complesso spesso tirano i remi in barca. In molti Centri di Salute Mentale – non tutti ovviamente, perché qua e là in Italia si trovano vere eccellenze – i casi di gravi e complessi sono abbandonati a se stessi e il carcere diventa la discarica in cui atterrano.

È il posto giusto per curare un paziente psichico? In alcuni casi il carcere offre un grande vantaggio: è l’unico posto da cui la persona non può essere scaricata, per quanti danni faccia, per quanto fastidio dia; quindi, diventa l’unica struttura che cerca di fare un pensiero su di lei, anche collaborando con la famiglia. È stato il caso di mio figlio, anni fa: in carcere minorile, grazie anche al Garante dei diritti delle persone private della libertà, eravamo riusciti ad ottenere un progetto di cura (in semilibertà, usciva dal carcere al mattino, andava in ospedale a fare psicoterapia e rientrava in carcere al pomeriggio), che però si è interrotto prematuramente con il fine pena.

In generale però, il carcere non è il posto giusto. In tutti gli istituti penitenziari esistono presidi psichiatrici, adatti a gestire i casi più semplici, e in alcuni anche le cosiddette “Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale”, che dovrebbero seguire i casi più complessi, ma che in realtà mostrano efficacia limitata, violazioni dei diritti individuali e gravi problemi gestionali (cfr.  Analisi associazione Antigone).

Ma allora, chi si occupa dei pazienti psichici autori di reato?

Lasciamo un attimo da parte le REMS, destinate alle misure di sicurezza per i malati completamente incapaci di intendere e volere e quindi assolti; i pazienti psichici autori di reato che invece devono espiare una pena possono – in teoria – accedere a misure alternative che consentano la cura, ad es. gli arresti domiciliari in comunità terapeutica. Mio figlio in passato è stato un anno in tre comunità diverse; purtroppo, sono state esperienze devastanti (in una era pesantemente sedato, nelle altre due denunciato proprio per i comportamenti tipici del suo disturbo); alla fine, anche le comunità lo hanno allontanato (“incompatibilità con gli altri ospiti”), ed è di nuovo atterrato in carcere.

Nessuno li vuole, questi pazienti complessi: in assenza di una regìa, vengono rimpallati all’infinito tra servizi territoriali, comunità e carcere.

In realtà, la struttura che dovrebbe fare la regia è l’unità di Psichiatria Forense, ma non tutti i DSMD ce l’hanno e, anche dove c’è, non sempre funziona.

È la “lotteria dei codici postali”: se abiti nel territorio sbagliato, puoi letteralmente morire. Lo scorso anno, nel carcere di Milano San Vittore, moriva un ragazzo di 21 anni, affetto da Disturbo Borderline di Personalità. Ha inalato il butano del fornelletto, dopo diversi atti di autolesionismo e in attesa di essere trasferito in REMS. Non si sa se si sia suicidato o se tentasse solo di avere un attimo di sollievo sballandosi con il gas – non lo sapremo mai – ma se mi chiedete di che cosa è morto, io dico che è morto di abbandono.

Nel 2022 si sono suicidate nelle nostre carceri oltre 80 persone, moltissimi con problemi di salute mentale. Se fate la proporzione sulla popolazione, è un numero molto più alto delle esecuzioni capitali degli USA: in Italia non c’è la pena di morte, ma se sei un paziente psichico autore di reato, può succedere che tu sia condannato a morire.

Articolo di Maria
per il progetto “Attivismo Digitale”

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