Passavano i giorni e mi sentivo sempre di più avvolta in un grigio fitto. Tornai a casa a Fagnano Olona e piano piano iniziai ad allontanare tutti i miei amici, compresa Anna. Ricordo che mi scriveva messaggi per chiedermi come stessi, mi chiamava, ma non rispondevo e così facevo con tutti gli altri.
A dicembre sarei dovuta partire per la stagione a Canazei, inizialmente ero entusiasta, ma poi pensai a come avrei potuto affrontare un’intera stagione in quello stato. Partii lo stesso e fu un incubo. Tutti i miei amici di Canazei non facevano altro che ripetermi: “Ma che hai? Ti vedo strana. Non sei la Desi dell’anno scorso.“ Ma come potevo spiegargli a cosa stavo pensando? Un pensiero così cupo, senza senso. Come potevo dire loro che stavo pensando al suicidio? Mi vergognavo.
La mia vita in quel momento era letto e lavoro. Qualche volta andavo a sciare, ma la maggior parte del tempo la passavo ad ubriacarmi per non sentire il dolore che avevo dentro, rischiando di farmi male su qualche pista, ma a me non importava. Potevo anche morire, non mi fregava di niente.
Ricordo che facevo una fatica immane ad alzarmi dal letto, lavarmi, asciugarmi i capelli, sciacquare i denti, tante volte non lo facevo nemmeno suscitando lo schifo dei miei coinquilini. Andavo al lavoro anche dopo aver sciato, senza farmi la doccia. Facevo proprio schifo. Lo sapevo, ma non me ne fregava niente. Ero al collasso.
Intanto mi facevo un sacco di domande “Come avrei potuto affrontare tutta la vita così?” “Cos’ho che non va?”. Sentivo che queste domande dovevo porle a qualcuno, ma non sapevo a chi rivolgermi.
Arrivò aprile e finalmente tornai a casa. Passava la maggior parte del tempo a dormire, ma un giorno venne a trovarmi Anna e vorrei riportare l’esatta conversazione che abbiamo avuto.
A: “Desi parlami! Perché non lo fai? Che succede? A me puoi dire tutto, sono la tua migliore amica!”
D: “Anna, non lo so se voglio dirtelo, mi vergogno. È che non sento niente. Guardo il sole e lo vedo grigio. I fiori sbocciano e non mi interessa. Vedo ogni cosa grigia. Sto pensando alle peggio cose e mi fa star male.”
A: “Ma cosa sono queste peggio cose? E cosa vuol dire che non senti niente? ”
D: “Non lo so cosa vuol dire”, presi un po’ di coraggio “Sto pensando di farla finita! Lo capisci? Io? Io che vedevo il bello in tutto sto pensando a questo. Sono in trappola, sono pazza, Anna. Non è normale pensare a tutto ciò senza un motivo. Non mi è successo niente di brutto. Non vedo il perché!”, piansi ancora più forte.
Anna non disse niente, mi abbracciò forte e dopo un po’ mi prese la mano e mi implorò con gli occhi. Io sapevo a cosa stava pensando “Desi ti prego, questa volta fatti aiutare non puoi stare così devi parlare con qualcuno, fallo per me” ecco cosa pensò. Io annuii.
L’indomani andai da mia madre e le chiesi se avesse ancora contatti con il dottor C., lei non aspettava altro. Finalmente ci ero riuscita, avevo chiesto aiuto.
La prima seduta con il dottor C. fu molto difficile, non sapevo che dire. Precisai solo che non avevo intenzione di prendere alcun farmaco e al contrario lui mi disse che ne avrei avuto bisogno, insieme al percorso terapeutico.
Seduta dopo seduta, la psicoterapia diede i suoi primi frutti e le conversazioni con il dottor C. divennero sempre più aperte. Mi fece domande sulla mia vita passata e mi disse che ero in un momento in cui volevo essere una bambina, perché forse non lo ero mai stata. Avevo bisogno delle coccole di mamma e papà e si, anche di andare a letto con un pupazzetto.
A giugno sarei dovuta partire per la stagione estiva come animatrice, ma non ero sicura che avrei potevo affrontarla in quello stato. Il dottor C. mi disse che potevo fare quello che volevo purché io me la sentissi, così decisi di andare. Partii. Depressa. Dopo una settimana di lavoro mi sentivo un po’ meglio, dopo due settimane stavo ancora meglio. Mi sentivo di nuovo io, ero rifiorita. I pensieri c’erano ancora ma li sentivo lontani, finché arrivò settembre e sparirono del tutto. Devo essere grata al dottor C., stavo al settimo cielo e mi sentivo di nuovo io. Una fenice.
La fenice è universalmente conosciuta come simbolo di rinascita e cambiamento, della forza e della resistenza al tempo, nell’antica Roma la fenice rappresentava la potenza dell’impero. Io mi sentivo così, come la fenice. Non so come, ma rinacqui dalle mie ceneri.
Articolo di Desiree
per il progetto “Attivismo Digitale”