La vita di chi resta (Mondadori, 2023) è una storia vera: la storia di un uomo, l’autore Matteo Bianchi, che sopravvive al suicidio dell’ex compagno. Racconto postumo (sono passati più di vent’anni da quell’evento) in cui l’autore racconta, con coraggio e senza pudore, il suo strazio di persona che rimane quando qualcuno di molto caro decide di togliersi la vita. Matteo e il suo ex compagno, nominato semplicemente S., si erano lasciati da pochi mesi quando S. decide di impiccarsi nell’appartamento che hanno condiviso e di cui ha ancora le chiavi. In qualche modo gli consegna dunque la sua morte, con il carico di inestinguibile senso di colpa che questo comporta.
Ho scelto di leggere e di parlare di questo libro perché anche se non parla in modo esplicito di malattia mentale ci porta comunque a toccare con mano l’abisso della disperazione, sia di chi sceglie di rinunciare alla vita che di chi deve andare avanti dopo un lutto di questo tipo. Questa lettura è stata per me una lettura fatta di schegge, di squarci sul dolore: c’è un filo narrativo, certo, che si snoda dal momento dell’evento a quando, molti anni dopo, Bianchi decide di scriverne per provare a dare a chi vive un’esperienza come la sua quello che non ha trovato: conforto, condivisione, la comprensione che sola viene tra pari. Ma in questo racconto che procede lungo un arco temporale, in cui il dolore lentamente sfuma, ci sono alcuni spunti di riflessione che possono essere molto interessanti per chi si occupa di salute mentale.
Innanzitutto, c’è la consapevolezza che “la perdita della ragione è là, a un passo da noi”. Lo sperimenta l’autore in un momento in cui, poco dopo il lutto, si dimentica completamente che l’ex compagno è morto e pensa di andare a casa e telefonargli. Questo breve blackout, forse uno stato di dissociazione difensiva, ci racconta di quanto ognuno di noi possa scivolare, in qualsiasi momento, dall’altra parte, in quel cono d’ombra in cui “la mente rinuncia alla verità e la sostituisce con la sua forma più innocua”.
Da un lato quindi troviamo il dolore di chi resta che prende le forme più varie e che non riesce a trovare ascolto, né nella psicoterapeuta che il protagonista decide di incontrare che nel gruppo terapeutico cui vorrebbe unirsi: una denuncia quindi di un grande vuoto, nell’assistenza ai sopravvissuti a suicidio, che il nostro sistema ancora impone. Dall’altra c’è il grande tema del “perché?”, a cui qui non si tenta di dare risposta, nella consapevolezza che ogni suicidio è un atto estremamente personale, solitario, una storia a sé non più raccontabile. C’è però un bell’incontro con uno psichiatra, il dottor Maurizio Pompili, che a Roma dirige il Servizio di prevenzione dei sucidi dell’ASL, di cui mi piace riportare le parole: “Il suicidio è sempre stato spiegato come sintomo di un disturbo mentale, in realtà è un fenomeno molto più complesso. Prima si pensava banalmente che chi voleva suicidarsi fosse depresso (:::). Ma non è così: molti depressi non arrivano a pensieri di morte, invece chi ci pensa è vittima di un dolore mentale costante, di un senso di fallimento, di angoscia, di sofferenza fisica, di dialogo incessante con se stesso… e il suicidio si presenta come la soluzione migliore per uscire da quello stato. Più che un desiderio di avvicinarsi alla morte, è il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile.”
Credo che queste parole da sole valgano a spiegare il senso del libro, che non ha nessuna pretesa di spiegare o cercare di dare delle ragioni a una scelta imponderabile, ma è il tentativo, magistralmente riuscito, di dare ascolto anche al dolore di chi rimane.
Articolo di Camilla,
per il progetto “Attivismo Digitale“