C’è un bel libro uscito da qualche settimana che ho voluto subito tra le mani, “Soffro dunque siamo” di Marco Rovelli, edito da Minimum Fax.
Premessa: l’ho letto da paziente psichiatrica e appassionata lettrice di ogni genere, ma con un’attenzione particolare a tutto ciò che riguarda la psichiatria. Quindi giocoforza il mio è uno sguardo di parte.
Già dal titolo, il cui sottotitolo è “il disagio psichico nella società degli individui”, si intuisce quello che è l’intento principale di quest’opera: riprendere in mano la dimensione sociale del disagio psichico, sottrarlo a una dimensione prettamente individuale e ricondurlo anche alle sue origini sociali, laddove una società frammentata, in cui i legami si sono spezzati e le persone sono sempre più isolate e sole, è una società che genera sofferenza. Sottrarre quindi la malattia mentale a una dimensione prettamente biomedicale (secondo cui la malattia ha una causa organica, biologica, e quindi va trattata esclusivamente coi farmaci) per riportarla alla complessità di fenomeno bio-psico-sociale. Trovare quindi nel neoliberismo, che ha trasformato i cittadini in consumatori e di conseguenza in imprenditori-promotori di se stessi, asserviti a una logica della prestazione, una delle cause del dilagare della sofferenza mentale negli ultimi 30 anni. Fin qui forse nulla di nuovo, per chi si interessa un po’ a queste tematiche.
Pregevole, a mio avviso, la capacità di Rovelli (scrittore, saggista, cantautore) di calarsi profondamente in una materia che non è la sua, rendendo accessibile a tutti, ma senza cadere in semplificazioni, temi e questioni che riguardano la psichiatria.
La parte forse più interessante è a mio avviso quella centrale, in cui l’autore propone una corrispondenza tra le caratteristiche di alcune psicopatologie del nostro tempo e alcuni tratti della società del presente, suggerendo che l’individuo non faccia altro che riflettere nel suo microcosmo di sofferenza quello che la società esprime a livello macroscopico. E così se il panico manifesta “una profonda verità del nostro tempo”, la solitudine, il disturbo borderline, nella sua oscillazione tra esaltazione e annullamento di sé, sarebbe il riflesso della “radicale modificazione che caratterizza il disagio della contemporaneità, segnato da due messaggi contraddittori: non puoi fare tutto ciò che desideri, devi fare tutto ciò che vuoi”. Non mancano ovviamente le riflessioni sul narcisismo, del cui ruolo nella società si è detto già tanto, o sui disturbi alimentari o di ritiro sociale.
Uno sguardo interessante, quello di Rovelli, anche se (e qui arrivo alla mia obiezione di paziente) il suo riportare il disagio a una dimensione sociale, pur condivisibile e necessario, tralascia a mio avviso in quest’opera lo spazio alla dimensione più intima della sofferenza psichica, che comunque permane.
Dopo una critica alla psichiatria biomedica, nell’ultima parte l’autore si sofferma su alcuni esempi di buone pratiche in psichiatria attuate a Caltagirone, Trento e Trieste. Anche su questo la mia esperienza personale, provenendo da una di queste tre realtà e conoscendola bene, è che a volte il modo in cui ci si racconta all’esterno (la voce è pure sempre quella dei primari) è un’autoesaltazione che non ha poi molto riscontro nella realtà. Forse intervistare pazienti, oltre che medici e dirigenti, sarebbe stato più utile. Resta comunque che “Soffro, dunque siamo” è un bellissimo libro utile per comprendere le sfaccettature del disagio psichico nella contemporaneità.
Articolo di Camilla
per il progetto “Attivismo Digitale“