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Itaca blog
20 Settembre 2024

Essere fragile non significa essere debole

Intervista alla Dott.ssa Francesca Parisi di “Terapiadinterni“

Fragile e debole. Così è stato definito da un cronista radiofonico Sam Fender, cantautore britannico, per aver scelto di cancellare uno dei suoi tour per prendersi cura della propria Salute Mentale.
Questo episodio, risalente a qualche settimana fa, fa riflettere su quanto, ancora oggi, avere una fragilità sia considerato una debolezza e sull’urgenza di restituire a questa condizione il suo vero significato.
Ne abbiamo parlato con Francesca Parisi, psicologa cognitivo-comportamentale, attiva su Instagram (terapiadinterni) nella divulgazione di temi che riguardano la Salute Mentale.
Nel corso della chiacchierata abbiamo affrontato anche altri argomenti: la narrazione dei disturbi mentali sui sociall’importanza della condivisione e come superare la paura della terapia.

Che cos’è la fragilità psicologica?
Partiamo da un presupposto: il disagio è parte integrante dell’essere umano. È difficile pensare che al mondo esista una persona che non si sia mai sentita fragile e vulnerabile.
La fragilità è non sentirsi funzionante per la maggior parte del giorno e per più giorni. Ha a che fare con il sentirsi sopraffatti dai pensieri, dalle emozioni, dalla difficoltà nel prendere decisioni e di entrare in relazione con l’altro. Ognuno di noi può dare alla fragilità un significato diverso; se in terapia una persona mi dice: “io sono fragile” la mia prima domanda è: “cosa intendi per fragile?”.

Cosa significa “essere fragili” per la società?
Nell’immaginario collettivo essere fragili ha a che fare con l’essere matti. Si tratta di un retaggio che risale a quando i pazienti venivano ricoverati nei manicomi; nonostante con la legge Basaglia queste strutture siano state chiuse, la concezione che lega la fragilità alla follia è ancora radicata nel pensiero comune.

Come mai è una visione così difficile da demolire?
Cambiare visione implica imparare ad avere a che fare con il dolore e questo è molto difficile perché entrano in gioco l’impotenza e la mancanza di controllo. Nessuno vuole sentirsi impotente, è più facile quindi negare la nostra fragilità e quella degli altri.

È comune pensare che manifestare una propria fragilità sia indice di debolezza. Possiamo dire, invece, che sia espressione di forza?
Assolutamente sì, la fragilità e la forza sono due facce della stessa medaglia. Di recente ho letto una frase su Instagram sull’invulnerabilità. Ci si chiedeva come fossero fatte le persone invulnerabili: non esistono. Conosco persone che sembrano invincibili, ma che in realtà nascondono tante fragilità: la paura di mettersi in discussione, di fidarsi e di affidarsi, ad esempio; e hanno la pelle molto più sottile di chi le manifesta apertamente e ci ha a che fare. Guardare le proprie fragilità richiede una grande forza.

Perché c’è ancora molta paura di condividere le proprie fragilità?
L’essere umano è un animale sociale, ha bisogno di stabilire legami. Manifestare una propria fragilità mentale può implicare essere considerati matti e venire isolati. In virtù del bisogno primario di relazione, ci si può quindi nascondere per paura dello stigma e della solitudine.
Ricordiamo che per solitudine non si intende necessariamente stare da soli e non uscire, ma anche non riuscire a sentirsi compresi in relazione con l’altro.

Quante sono le persone nel mondo che convivono con un disagio mentale?
Di recente abbiamo letto su varie testate giornalistiche che la popolazione mondiale ha raggiunto 8 miliardi di persone. Su 8 miliardi, 970 milioni di persone convivono con un disturbo mentale; di queste, 300 milioni vivono con un disturbo d’ansia. Questi sono i dati certificati, non dimentichiamo che ci sono tante persone che vivono ai margini della società che non vengono documentate. Questi numeri parlano chiaro: non ci si può più voltare dall’altra parte, bisogna considerare che c’è un problema importante da guardare.

Quanto è importante secondo te parlare sui social della propria Salute Mentale?
La condivisione delle proprie fragilità è un aspetto fondamentale: fa diminuire di tanto la paura e, di conseguenza, lo stigma. Il pensiero che si genera è questo: se io ti ho visto fragile, ma adesso ti vedo funzionante nel mondo – dove per funzionante intendiamo: avere un lavoro, sentirsi soddisfatto, sereno –  allora io so che posso farcela. Molti personaggi famosi condividono le proprie vulnerabilità e i propri percorsi di terapia sui social, questo è molto positivo; le nuove generazioni, infatti, sono più aperte e non sono spaventate quanto lo erano le nostre o le precedenti. Uno degli obiettivi più importanti della divulgazione è proprio questo: far diminuire la paura della terapia.

C’è ancora molta paura della terapia psicologica?
C’è la tendenza a immaginare la stanza di terapia come un luogo mistico in cui quello che accade è affidato al mistero. È importante, invece, abbattere questo stigma raccontando ciò che succede in realtà. Si tratta di un percorso per imparare a prendersi cura di se stessi, ad ascoltarsi e affrontare un determinato disagio. Tante persone mi scrivono che grazie alla divulgazione che faccio sui social sono meno spaventate all’idea di intraprendere un percorso. Per me l’obiettivo principale è questo.

A proposito di divulgazione, cosa ne pensi della narrazione della Salute Mentale sui social?
È molto importante per combattere lo stigma. Uno degli aspetti positivi della divulgazione è che raggiunge tante persone, tanti giovani, molto velocemente. In virtù di questa responsabilità, è importante che i contenuti siano studiati e portati avanti da un professionista della Salute Mentale. Purtroppo, però, non è sempre così.

Ci sono degli aspetti negativi?
Di recente stiamo assistendo a un fenomeno legato al “prendere di mira” un disturbo di personalità e stigmatizzarlo – il più comune è il disturbo narcisistico di personalità.
Il rischio è che a ogni persona che sembra avere un atteggiamento simile a quello descritto – talvolta in un reel di 30 secondi – viene affibbiato quel disturbo. La diagnosi, invece, è molto più complessa e si stabilisce sulla base di un continuum di determinati fattori che vanno studiati e approfonditi.
Senza contare che bisognerebbe portare all’attenzione il fatto che quando l’altro ci ferisce, dietro c’è una ferita. Questo, naturalmente, non vuol dire giustificare i comportamenti disfunzionali, ma significa responsabilizzare anche la vittima. È importante, infatti, che la persona che subisce una violenza (verbale, psicologica o fisica) si senta in grado di avere un potere e la responsabilità di poterne uscire.
Parlare di un argomento così complesso e delicato sui social è un’arma a doppio taglio: se da un lato si fa informazione, dall’altro si rischia di generalizzare un disturbo complesso e alimentare lo stigma.

Come mai c’è questa tendenza?
Probabilmente per paura. Chi adotta un tipo di narrazione stigmatizzante potrebbe essersi trovato in relazione con una persona con un disturbo narcisistico di personalità e avere la necessità di parlare del problema. Talvolta lo si fa perché “va di moda” e ci si accoda per guadagnare visibilità. Io non credo che sia fatto con l’intento specifico di distruggere una certa categoria di persone. Ritengo che a volte si facciano le cose con superficialità e non si renda conto della risonanza che si può avere.

Qual è il tipo di narrazione corretta da adottare sui social?
Io credo che sia più semplice parlare di emozioni sui social, di cosa si prova, per entrare in empatia e confrontarsi. In un post è molto complicato parlare di temi delicati, per quanto ci si possa attenere ad articoli scientifici o libri. Io preferisco fare dirette perché perlomeno c’è un dialogoun ascolto e se alcune parole vengono travisate possono essere ulteriormente approfondite.
Dare risposte, emettere sentenze rispetto a un certo tipo di comportamento non è un approccio affidabile, soprattutto se fatto su un canale social.
Il nostro lavoro – parlo di noi psicologi – ha a che fare con l’essere umano, e in virtù di questo deve sollevare dubbi, domande. Ecco, io ritengo che la maniera giusta per divulgare sia questa: sollevare domande, interrogativi e dare spunti di riflessione.

Concludiamo tornando alla fragilità: lasciamo un messaggio a chi in questo momento si sente fragile.
A noi piacciono tanto i cristalli, le porcellane, tutto ciò che si può rompere. Li abbiamo in casa, li esponiamo, li cerchiamo; a volte più sono sottili e più ci piacciono, li troviamo eleganti. E allora perché le persone, quando ci mostrano le proprie fragilità non ci piacciono? Perché non ci sentiamo a nostro agio? Noi siamo molto più resistenti di ciò che crediamo, anche se ci riempiamo di crepe non ci disintegriamo in mille pezzi, non diventiamo oggetti da buttare. Se ce ne prendiamo cura, non succede.
Se invece viviamo nella paura di mostrarci, ci rinchiudiamo nel nostro mondo, diventiamo inavvicinabili. La cura è l’unica via praticabile per rimanere integri nonostante le crepe. L’antica arte giapponese (Kintsugi – letteralmente “riparare con l’oro”) che ricopre le fessure degli oggetti rotti di oro ce lo insegna. E si può diventare anche molto più belli perché si diventa più umani.

Articolo di Francesca Sola
per il progetto “Attivismo Digitale“