Perché si fa ancora fatica a chiedere aiuto agli specialisti del settore quali psicologi e psichiatri qualora si stia vivendo un momento difficile come la depressione, l’ansia sociale e l’incombere dei primi pensieri suicidi?
Siamo nel 2025 e credo che non solo la nostra società non sia ancora predisposta a parlare senza remore e vergogna di problemi di salute mentale ma, come fosse una beffa, anche chi ne soffre non è predisposto o pronto a chiedere aiuto.
Questa situazione sociale fa parte di un bagaglio generazionale per cui l’essere depressi o ansiosi non rappresenta un problema, viene ancora stigmatizzata come pazzia.
La classica frase che anche io mi sono sentita dire da parenti e amici “sei tu che ingigantisci tutto, i problemi sono altri, pensa a chi sta male veramente” porta a chiudersi in un proprio mondo, dove vivere e provare in silenzio emozioni contrastanti, portandoci al convincimento di essere noi il problema ed evitando di parlarne apertamente per vergogna, perché pensiamo di farcela da soli o addirittura per non voler pesare su familiari e amici.
Nella società moderna e su tutti i social media, così presenti nelle nuove generazioni, si pubblicizza e valorizza l’essere super in tutto: belli, in forma, con un lavoro che si ama e che non ci porta mai preoccupazioni, non si fallisce mai perché non si può fallire altrimenti tutta la tua vita è un fallimento.
Quanti di noi possono dire di non aver mai vissuto un periodo di difficoltà, c’è chi riesce a superarli ma, allo stesso tempo, esistono tante altre persone, di tutte le fasce di età, che invece non riescono.
C’è chi per istinto riesce a capire i primi campanelli di allarme e decide di farsi aiutare, anche con terapie farmacologiche. C’è chi invece se ne fa una colpa, fa finta che vada sempre tutto bene, che nulla li possa toccare, non provano emozioni e nulla ha veramente senso. Ma questa è la verità? Assolutamente no.
Poco si parla anche di burnout e la sua diffusione rivela dati shock: a livello globale, la percentuale di dipendenti che sperimentano sintomi di burnout si attesta intorno al 20%. Questo fenomeno colpisce in modo più significativo dipendenti di aziende più piccole, che non ricoprono posizioni manageriali e i lavoratori più giovani.
Anche io l’ho vissuto: il mio superiore ha cominciato a mettermi pressioni, pressioni che avvenivano davanti a colleghi e questo ogni singolo giorno. Ho cominciato a commettere sempre più errori e tutti i giorni erano umiliazioni. La mia testa mi diceva che dovevo farcela da sola, che ero io il problema che se mi dicevano che ero un incompetente e allora lo ero.
Mi sono affidata alla psicoterapia soprattutto per uscire dagli schemi che mi si erano creati nella testa. Mi sentivo come un criceto chiuso in una gabbia e la terapia mi sta aiutando a vedere le cose da prospettive differenti: questo mi e ci stimola ad uscirne.
Non per tutti è così però, che chi va avanti ignorando i segnali, i propri fantasmi interiori e poi si insinua quella voce persistente che li porta ai pensieri di suicido.
I dati ISTAT del settembre dello scorso anno hanno confermato un incremento generale dei suicidi: nel 2021 si sono registrati 3.870 casi, rispetto ai 3.748 del 2020, con un aumento del 16% nella fascia d’età tra i 15 e i 34 anni.
Purtroppo se ne parla ancora troppo poco ma forse con un impegno sociale come eventi o supporti ad associazioni come Itaca, si possono prevenire ed evitare.
Questa non è solo una speranza, ma un obiettivo.
Articolo di Susanna Albanese,
dal progetto di Attivismo Digitale.