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Itaca blog
05 Novembre 2025

Come parliamo di corpi: liberare lo sguardo, cambiare le parole (intervista a Carolina Strada)

Intervista a Carolina Strada, psicologa esperta in comportamento alimentare e psicologia dello sport.

Il nostro corpo dovrebbe essere il luogo in cui impariamo a conoscerci, ad ascoltarci e a esprimerci liberamente. Eppure, troppo spesso, diventa terreno di giudizio e confronto.
Viviamo in una società che ci abitua a guardarlo dall’esterno, come un oggetto da correggere e a cui dover far assumere una forma ideale per avere il diritto di esistere.
Invece, il corpo è una parte viva di noi e, in quanto tale, in continuo cambiamento.
Ma come possiamo sostituire la lente attraverso cui abbiamo imparato a guardarci con una nuova, capace di farci esistere come persone complesse, ognuna con le proprie peculiarità, senza che il corpo determini il nostro valore?

Ne abbiamo parlato con la psicologa Carolina Strada, per riflettere su quanto sia importante restituire al corpo la sua verità: quella di un territorio unico, mutevole, imperfetto, umano.

Se dovessimo scattare oggi una fotografia del rapporto che le nuove generazioni hanno con il proprio corpo nella società occidentale, che immagine verrebbe fuori?
Credo che ne verrebbe fuori un’immagine complessa e contraddittoria. Da un lato in questo periodo storico possiamo finalmente osservare persone e corpi che cercano libertà, che rivendicano il diritto di esistere al di fuori dei canoni da sempre imposti, in maniera diversa, in ogni periodo storico. Dall’altro, corpi ancora imprigionati dallo sguardo, dal confronto, dall’idea di dover essere “qualcosa” per essere accettati. Persone estremamente affaticate da una pelle che sentono inadeguata, troppo stretta, limitante. Le nuove generazioni vivono in un tempo in cui l’immagine, soprattutto attraverso i social, è diventata il linguaggio dominante. Ci si guarda, ci si fotografa, ci si posta. Eppure, in mezzo a tutto questo vedere, spesso manca l’ascolto del corpo reale, del corpo che sente, del corpo che cambia. Del corpo in quanto mezzo attraverso cui viviamo e sperimentiamo il mondo, non come obiettivo da perfezionare per sentirci all’altezza di vivere la vita.

In un tuo post si legge “si impara che il corpo è qualcosa da controllare, non da ascoltare”. Come si interiorizzano i modelli culturali sul corpo fin dall’infanzia?
Fin dai primi anni di età, senza accorgersene, i bambini e le bambine imparano a “stare nel corpo” osservando gli adulti. Ascoltano come si parla di sé, come ci si guarda allo specchio, come si commentano i corpi altrui. E il messaggio che passa è troppo spesso – da ogni finestra dalla quale cerchiamo di aprirci al mondo – che il corpo vada gestito, corretto, migliorato. Così, da piccolissimi, si impara che le proprie sensazioni di fame, stanchezza e piacere devono essere sostituite con regole, imposizioni, limiti.

Si parla di “corpo vissuto” e di “corpo visto”. Qual è la differenza tra queste due dimensioni e in che modo lo sguardo esterno può influenzare il modo di vivere e percepire il proprio corpo?
Il corpo vissuto è quello che si sente: la nostra esperienza soggettiva del corpo. È la complessità che respira, che si muove, che prova piacere o dolore. È ciò che ci permette di avere presenza nel mondo. Il corpo visto, invece, è quello che appare e che immaginiamo di mostrare: è la nostra immagine riflessa nello sguardo degli altri e nei nostri, che assimiliamo quello dell’esterno. È il “mai abbastanza” che appoggiamo sulla pelle e che non ha niente a che fare con lei. È quel rumore che spesso si agita tra ciò che vediamo e quello che pensiamo dovremmo vedere. È la forma che viene descritta attraverso le parole che impariamo: parole crude che non contemplano gentilezza. Quando lo sguardo esterno diventa più importante di quello interno, succede qualcosa di profondo: cominciamo a guardarci come se fossimo “fuori da noi”. Ogni parte di noi passa attraverso un filtro fatto di giudizi, confronti, standard estetici che ci allontanano da noi stessi. Tornare al corpo vissuto significa tornare a sentirsi, a fidarsi delle proprie percezioni. È un lavoro di riconnessione, e anche di libertà.

Perché espressioni apparentemente innocue come “come sei dimagrita/o” o “sei ingrassata/o”, anche se intese come complimenti, possono risultare dannose? E perché dovremmo smettere di commentare i corpi, qualunque forma abbiano?
Innanzitutto, perché quando parliamo della superficie le stiamo dando importanza: un’importanza che forse, ad oggi, sarebbe meglio smettesse di avere. Inoltre, non conosciamo l’interiorità della persona che abbiamo di fronte: il suo vissuto, le sue fatiche, le sue emozioni. Il modo in cui può “leggere” quelle parole. Smettere di commentare i corpi è un atto di rispetto, ma anche di educazione emotiva: significa spostare lo sguardo dal come appari al come stai.

Cosa succede, psicologicamente, quando il corpo diventa il principale terreno su cui una persona misura il proprio valore?
Accade che il corpo acquisisce un’immensa responsabilità, diventando un luogo di controllo e di ansia. Si appoggia tutto – l’autostima, le relazioni, la percezione di sé – su qualcosa di fragile e mutevole. Su qualcosa che avrebbe tutto il diritto di esprimersi e di cambiare: di essere la conseguenza, e non lasciapassare, della nostra vita vissuta. Il corpo diventa un punto, un contenitore all’interno del quale arginare la paura di non essere amati. Vedere il corpo come strumento per affermare il nostro valore allontana dalla nostra complessità come esseri umani.

Quali fragilità emergono nel rapporto con il corpo durante l’adolescenza e quali strumenti psicologici ed educativi possono aiutare i ragazzi e le ragazze a sentirsi bene con sé stessi, al di là delle pressioni sociali e culturali?
L’adolescenza è una rivoluzione: un frullatore in cui il corpo cambia più velocemente di quanto la mente riesca a comprendere. Ed è un periodo in cui quel corpo diventa specchio di tutto: identità, desiderio, appartenenza, valore. Le fragilità più grandi nascono dal confronto e dal bisogno di riconoscimento. Gli strumenti che possono aiutare? Ascolto, prima di tutto. E poi parole più gentili, meno performative. Oltre che la possibilità di mantenere lo sguardo anziché sulla sua forma e sull’analisi delle sue caratteristiche estetiche su tutto ciò che questo meraviglioso organismo ci permette di fare, sentire, vivere.

Che messaggio vorresti lasciare a chi, in questo momento, si sente inadeguato nel proprio corpo?
Accogli tutte le emozioni travagliate che senti. Senza evitarle o invalidarle. E poi, da qui, lasciati lo spazio per pensarti in maniera diversa, senza dover togliere ma iniziando ad aggiungere. Parole, gesti, pensieri più gentili. Imparare a stare nel proprio corpo non significa piacersi sempre, ma sapere che non c’è bisogno che il tuo corpo ti piaccia per prendertene cura. Che ci saranno giorni più facili e giorni più faticosi, ma che in ogni momento puoi aggiungere un tassellino di quel mosaico che ti racconta che vai bene così, comunque tu sia. Perché sei molto altro, molto oltre. Non meriti più la fatica che hai sempre fatto.

Intervista a Carolina Strada, a cura di Francesca Sola,
dal progetto di Attivismo Digitale.

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