Se ultimamente si parla spesso di carcere e ancor più spesso di salute mentale, i due temi legati tra loro sono uno dei più complessi con cui la società civile deve fare i conti.
Tutto il carcere, inteso come struttura e come istituzione, favorisce lo sviluppo di disturbi psichici, slatentizzando a volte fenomeni già presenti o manifestandone anche in chi prima non ne aveva mai sofferto.
All’interno delle strutture carcerarie la salute mentale è molto più vulnerabile di quanto avvenga nella società libera: non solo chi entra negli istituti di detenzione spesso vi arriva con disagi psichiatrici già manifestati, ma il rischio di svilupparne di nuovi aumenta di norma nelle specifiche condizioni carcerarie.
L’insorgere di patologie mentali è favorito dalle particolari condizioni ambientali in cui la popolazione carceraria è sottoposta. Diversi studi mettono in relazione come in determinate situazioni sia più facile sviluppare patologie: fattori ambientali come il sovraffollamento, le attività di formazione o di lavoro che si possono svolgere, la limitazione degli spazi personali e le dimensioni della cella sono elementi determinanti per la vita quotidiana i detenuti.
Secondo uno studio portato avanti dall’Università La Sapienza, lo sviluppo delle patologie nella popolazione carceraria dipende anche dal genere: le donne, per esempio, sarebbero più esposte a disturbi legati all’ansia e all’irritabilità e comportamenti distimici o ciclostimici. Oltre al genere, anche le risorse culturali a disposizione delle persone influiscono su come si affrontano i diversi momenti della vita detentiva.
Come evidenziato già da tempo, grazie a studiosi come Erving Goffman, per le persone detenute ci sono fasi particolarmente complesse che espongono a una maggiore vulnerabilità e alcuni tra i disturbi psichiatrici e psicologici più diffusi tra la popolazione carceraria sono legati alle specifiche fasi affrontate nel corso della vita in carcere come i disturbi d’ansia generalizzata. Molte delle problematiche che emergono nelle prime settimane dall’arrivo possono ridimensionarsi o cronicizzarsi o aggravarsi con il passare del tempo.
Se l’irritabilità così come lo stato depressivo permangono, oltre a trasformarsi in apatia, altri disturbi che si rintracciano sono: il disturbo post traumatico da stress, il disturbo dell’adattamento, quello di controllo degli impulsi, il disturbo della personalità (narcisistico, borderline e antisociale). La maggioranza degli atteggiamenti auto-aggressivi per esempio si verifica nel periodo che va dai sette giorni ai quattro mesi successivi, mentre, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, anche il momento più vicino alla scarcerazione è legato all’insorgere di patologie psicologiche e psichiatriche. A queste poi, si associano anche quelle connesse all’uso di sostanze. Dal rapporto 2022 di Antigone emerge che il 10% dei detenuti ha una diagnosi psichiatrica grave. Inoltre, il 20% assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi ed addirittura il 40,3% sedativi o ipnotici. A fronte di questo le ore di servizio degli psichiatri sono in media 8,75 ogni 100 detenuti, quelle degli psicologi 18,5 ogni 100 detenuti.
È facile avvertire come, nel dibattito pubblico, il carcere sia ancora concepito troppo spesso con una funzione principalmente o unicamente punitiva.
Per chi ha bisogno di assistenza, nel nostro ordinamento esiste il D.P.R. 230/2000, nello specifico negli articoli 111 e 112: questi prevedono le Articolazioni per la tutela della salute mentale (le cosiddette Atsm), ovvero sezioni speciali per chi è affetto da disturbi psichici e patologie. Uno dei problemi maggiori è che la legge prevede una permanenza limitata in questi luoghi dedicati all’interno delle strutture carcerarie (di norma non superiore ai trenta giorni). Di conseguenza non si tratta di un percorso strutturato e di un progetto intorno alla vita della persona detenuta ma solo di una misura che si limita al contenimento, spesso attraverso l’utilizzo di quella che viene definita “cella liscia”.
Sebbene gli art. 111 e 112 non siano pensati esclusivamente per i detenuti psichiatrici, il problema del trattamento delle malattie mentali negli istituti di pena non è risolto.
Quella delle celle lisce è una prassi attestata in alcune case di reclusione, perché il contenimento ambientale risolve nell’immediato fenomeni di autolesionismo e tentativi di suicidio.
Accanto a tutte queste problematiche si affiancano anche quelle connesse al tasso di suicidi.
Come denunciato dalla associazione Antigone, il 2022 è stato l’anno con il più alto numero di suicidi in carcere: 84 persone.
Al di là delle patologie vere e proprie, la solitudine è una condizione che riguarda tutte e tutti e che accomuna la popolazione carceraria oltre alle specifiche del carcere duro e del 41-bis che prevedono l’isolamento nella loro stessa istituzione.
La solitudine e la mancanza di contatti con l’esterno, quando non rispondono a specifiche necessità di tutelare la comunità, isolano le persone detenute e precludono ogni attività seppur minima di socialità. Socialità che per natura dovrebbe essere considerato un diritto umano.
Articolo di Maria Zizza
per il progetto “Attivismo Digitale“