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Itaca blog
19 Settembre 2024

Cronaca di un suicidio: come ne parlano i giornali?

Qualche settimana fa una donna in provincia di Trento si è tolta la vita portando con sé il figlio di 4 anni.
La donna si è gettata da un ponte insieme al bambino. In breve i giornali locali e poi quelli nazionali hanno raccolto la notizia, diffondendola con tanto di fotografie della donna e dettagliandola di molti particolari.

L’evento mi ha colpito da vari punti di vista: innanzitutto da attivista per la salute mentale, che conosce bene sulla propria pelle il disagio psichico e quelle che possono essere le sue drammatiche conseguenze. Mi ha colpito da ex giornalista, per come la notizia è stata trattata dai media; mi ha colpito, infine, da donna, casualmente anche coetanea della vittima, per il portato simbolico di questo tragico gesto, le cui motivazioni la donna ha reso note con una lettera indirizzata al quotidiano locale L’Adige.

Ma andiamo con ordine: il primo sgomento è stato quello che si è manifestato quando, nei primi articoli a caldo, si lasciava la parola al sindaco del paese di cui la donna era originaria, il quale si stupiva del gesto dichiarando che “non le mancava nulla”. Insomma, siamo nel 2023 e ci troviamo ancora immersi in una cultura, o sub-cultura, secondo la quale se “hai tutto” (ma che cosa è poi questo tutto? Una casa? Un lavoro? Una famiglia? La salute?) allora non puoi essere profondamente infelice. Pregiudizio duro a morire, se questo virgolettato del sindaco è rimbalzato in quasi tutte le cronache.

Dopo un po’ di ore dal suicidio-omicidio, hanno iniziato a comparire le foto della donna; qui faccio appello alle mie conoscenze in ambito giornalistico: il codice deontologico prevederebbe di non riportare notizie di suicidi a meno che non abbiano una rilevanza di interesse pubblico, cosa che evidentemente qui non era.

Ma, qualora si decida che vengano trattati, sarebbe comunque non consentito divulgare le generalità e le foto di chi decide di togliersi la vita. La ratio di questa regola sarebbe da un lato il rispetto della vittima dall’altro l’evitare inutili sensazionalismi che potrebbero scatenare emulazioni. Anche in questo caso, sgomento per come le regole deontologiche e di buon senso siano saltate, questa donna sia stata data in pasto a tutti noi col suo bel sorriso, la faccia felice, e l’inevitabile domanda: “perché?”.

Il perché del suo gesto ha deciso di raccontarlo lei in una lettera inviata al giornale Adige e resa pubblica; anche qui, con mia grande perplessità: anche se nella scelta della donna c’era evidentemente di lanciare al mondo il suo messaggio di disperazione, era nelle facoltà del giornale decidere di non pubblicarla. È una lettera privata e molto dolente, in cui la donna esprime tutta la sua sofferenza per la separazione dal compagno e soprattutto per essere una 41enne che si ritrova single, con un unico figlio e il sogno di una famiglia numerosa visto sfumare. In queste parole ho sentito tutto il peso che noi donne dobbiamo ancora portare sulle nostre spalle di aspettative sociali che ci vogliono produttive ma anche riprodotte, belle, sorridenti e assolutamente non sole; preferibilmente mai, ma non certo dopo i 40 anni. Qui mi sono detta che forse, piuttosto che andare a spulciare nella storia di vita e sentimentale di questa donna, il compito di chi fa informazione, e la fa bene, sarebbe stato quello di interrogarsi su questo: sul ruolo che ancora hanno le aspettative sociali, su come impattano sulla vita di ogni persona e delle donne in particolare. Solo in questo modo si sarebbe trasformato questo gesto individuale e terribile in un gesto pubblico, con un reale interesse collettivo. Rimane il grosso tema di se e quanto si debba parlare di suicidio sui giornali: c’è chi sostiene, in parte giustamente, che occultare le cronache di sucidi è un modo di continuare a insabbiare un tema così importante nella nostra società, di cui evidentemente facciamo ancora fatica a riconoscere i prodromi e i segnali di allarme. Di contro, è vero che va rispettata la privacy di chi sceglie di concludere la propria vita in modo volontario, che non è altro che una delle tante possibilità di morire che ci sono date. Credo che una sana via di mezzo sarebbe parlare dei sucidi senza aggiungere nomi o immagini, riportare la cronaca, dare spessore al fenomeno senza intaccare la privacy di nessuno. Ma soprattutto, continuare a parlarne non chiedendo il parere al sindaco, al parroco o al collega, ma facendoci spiegare dagli esperti quali sono i segnali da non trascurare ed essere così pronti a riconoscere la sofferenza vicino a noi.

Articolo di Camilla
per il progetto “Attivismo Digitale“

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