Apprezzare. Che bella parola, quanto è soddisfacente tirare un sospiro di sollievo e accorgersi di essere arrivati così lontani.
Quando mi sono voltata indietro e ho visto da dove partivo e dove ero giunta, oltre all’inevitabile soddisfazione, ha fatto capolino la complessità della mia mente. Ed è proprio questo il mio più grande dono e limite allo stesso tempo. Cercare di esaltare il positivo e minimizzare il negativo risulta fantascienza, facendo sembrare piccole imperfezioni dei disastri su tela.
Per fare onore alla complessità che mi contraddistingue non sono riuscita a riconoscermi i meriti a sufficienza, quello che ancora manca ha spesso la meglio e le cose negative vogliono mettersi sempre in risalto. Anzi no, sono io a notarle per eccesso di controllo. La cosa buffa e tenera è che sentirmeli riconoscere è così piacevole da non bastare mai, perché alcuni spazi vuoti sono grandi da riempire, e hanno bisogno di molta cura.
Il perfezionismo per cui tutto è bianco o nero è irreale. Niente è perfetto e nessun lavoro nella propria interiorità potrà mai portare alla pace dei sensi, saremo sempre in balia delle onde e le fragilità bruceranno spesso. Posso concedermi di notare che anche i piccoli lavori di manutenzione, le piccole cadute e risalite, il dolore e poi la gioia hanno senso, perché ci insegnano quanto non possiamo chiederci altro che migliorare costantemente, anche dopo la centesima caduta. Non è forse questa la perfezione?
Eccolo il grande paradosso: la perfezione consiste nel concedersi di non esserlo proprio mai, perfetti.
Non è perfetto non arrendersi mai, ma farlo e poi capire che non ci eravamo davvero arresi, avevamo solo smarrito la bussola? Non è perfetto scoprire di avere sempre un mazzo di chiavi di scorta, per aprire spiragli anche dove sembrano esserci muri? Non è perfetto quando le cadute ci mostrano che riusciamo a risalire e riprendere a camminare proprio grazie agli strumenti che abbiamo costruito con tanta fatica? Non è perfetto tornare a emozionarsi e sorridere quando tutto sembrava morto e desolato?
È così bello scoprire che anche la tristezza ha una fine e che nessun dolore ci identifica.
Per quanto buio sia, esiste il conforto in ogni momento, piccole candele si possono accendere anche nell’oscurità e creare un po’ di calore. È magico quanto le nostre fragilità possano diventare delle nemiche molto amichevoli. Farsi fermare da loro significherebbe restare al punto di partenza per sempre, ma voglio credere davvero che si possa coltivare una resistenza sempre maggiore, come gli atleti che si preparano per le corse.
Però si sa ed è inutile negarlo, quello ancora da sistemare fa più rumore di tutto quello che si è fatto. Non ho una risposta convincente al perché debba andare così, maOgni passo che a noi sembra minuscolo dovremmo immaginarlo visto con le lenti del passato e allora forse ci accorgeremo di quanto sia grande, di quanto sia enorme se solo osserviamo da dove proveniamo. Ci vuole un gran fisico per non arrendersi, a non scegliere la strada facile, ma quella più impervia, con tanti fossi ma anche molti tramonti, che sono la benzina dell’anima. Ammettiamolo, se non si è mai nemmeno osato provarci, cercare di stare bene è molto più difficile di stare male, ma non facciamoci fermare da questo. Forse la stabilità è un obiettivo ancora lontano e anche apprezzare senza vedere solo i difetti è tanto dura, ma al proprio personalissimo ritmo si avanza verso territori nuovi, ed è grazie ai piccoli passi messi in fila che posso dir(ce)lo: “quello che conta davvero è solo il prossimo passo…forza, riconosciti i successi perché alla fine tutto andrà bene.”
Articolo realizzato da Sara,
per il progetto “Attivismo Digitale“