
Ci sono dolori che non si vedono.
Stanno lì, nascosti tra le pieghe delle giornate normali.
Tra un sorriso educato e un “va tutto bene” detto per abitudine.
Dolori piccoli ma tenaci, come certi ricordi d’infanzia che non fanno rumore ma restano.
Quando diventiamo adulti, impariamo a conviverci e a considerarli parte del nostro carattere.
Da bambina io volevo solo essere come le altre.
Non migliore, non brillante. Solo una come tante.
Avrei voluto i capelli lisci, magari biondi, le scarpe giuste, persino quel piccolo osso del piede che spunta nei corpi magri—la testa del metatarso? Il nome l’ho scoperto poi!
Avrei voluto essere la ragazza con la battuta pronta, quella che prende dieci senza fatica, che corre la corsa campestre con leggerezza e senza mai un alone di sudore.
D’altronde, il cibo era la mia consolazione.
Mangiavo per sentirmi al sicuro, per calmare l’assenza, per riempire quello
spazio vuoto dove sarebbe dovuto esserci l’affetto.
L’amore, in casa mia, sembrava un piatto costoso, pregiato, che non ci si poteva permettere.
Qualcosa che guardi da lontano, che desideri, ma che non ti spetta.
Così mangiavo altro. Qualsiasi cosa che potesse tenermi compagnia, che mi facesse sentire “piena” almeno per un po’.
Il mio corpo, piano piano, è diventato il riflesso di quella fame che non c’entrava con il cibo.
Nella mia infanzia, l’affetto è stato un ospite raro.
Pochi baci. Poche carezze. Nessuno che si sedesse accanto a me solo per il gusto di farlo.
Ma il giudizio… quello c’era sempre; presente e pronto a far notare tutto quello che non andava.
Credo di aver imparato presto a dubitare di me. A chiedermi se valevo almeno qualcosa. A comprendere che l’amore bisognava sempre
guadagnarselo: con la bravura, con il silenzio, con la perfezione.
Poi sono cresciuta… Ho imparato a funzionare meglio: a sorridere, ad essere gentile, a fare quello che si aspettavano ma la verità è che quella bambina goffa e paffuta, quella con gli occhi pieni di domande, non se n’è mai andata davvero. È ancora dentro di me…
Oggi ancora fatico a pensare che qualcuno possa amarmi davvero. Senza condizioni.
Fatico a credere che io possa essere vista per intero, non solo per quello che faccio, ma per quello che sono realmente.
Ogni volta che arriva un complimento, un gesto gentile, la prima cosa che mi viene da pensare è: “Cosa può volere in cambio?”. È come se la bambina goffa ma arrabbiata si alzasse in piedi sopra al mio cuore e dicesse: “Attenta. Non fidarti. Nessuno può amarti e apprezzarti”.
La sua voce, severa ed insistente, mi sussurra: “Non sei capace. Stai solo facendo finta. Prima o poi se ne accorgeranno tutti che sei solo un fallimento totale. È questione di tempo”.
Una voce che conosco bene. È la stessa che mi faceva abbassare lo sguardo da bambina, che mi faceva provare la paura di esistere. Ora si è fatta più sofisticata, ma è ancora lì.
Eppure, nonostante tutto, nonostante Lei, sto lottando.
Lottando per cambiare i miei schemi, per smontare le convinzioni che sono ancorate dentro di me.
Anche se è difficile, anche se ogni tanto vorrei mollare, so che è ancora possibile.
La mia storia non comincia con me.
Anche i miei genitori vengono da realtà in cui non si respirava amore e sicurezza. Hanno senza dubbio sofferto.
Non giustifico tutto, ma solo ora inizio a comprendere.
So che spesso chi ci fa del male è stato ferito per primo e che certe catene si spezzano solo quando qualcuno trova il coraggio di non volerle portare più.
Quella persona vorrei tanto essere io.
Ora ho trentasei anni, una famiglia, dei figli che mi guardano con occhi grandi di affetto e stima. Spesso non mi spiego il loro amore incondizionato.
È proprio per loro che sto provando a riscrivere la storia.
Dietro la mia scrivania ci sono cumuli di fogli accartocciati, ma di penne ne ho ancora tante di fronte a me.
Sto cercando di spezzare la catena. Di non trasmettere quei vuoti, quei silenzi.
Di farli sentire sicuri dell’amore che hanno intorno. Di fargli sentire che credo nei loro sogni e nelle loro capacità.
La catena è ancora presente…
Porto nei miei gesti, nei miei modi, ciò che inevitabilmente ho interiorizzato crescendo.
Anche se ho consapevolezza, anche se vedo le cose con occhi diversi, certi nodi fanno ancora fatica a sciogliersi.
Gli abbracci, ad esempio.
Per me non sono mai stati naturali. Non lo sono nemmeno ora. A volte mi irrigidisco, mi trattengo, mi innervosisco, come se l’intimità vera
fosse qualcosa che va misurata, controllata. Eppure un po’ci provo. Anche quando non mi viene facile. Anche quando una parte di me vorrebbe fuggire.
Provo ad amare come posso, con quello che ho imparato e con quello che sto reimparando.
Ogni nuova conquista, anche se piccola, è un passo in avanti.
Un passo verso chi amo e uno verso di me.
Sto imparando ad amare me stessa.
A sciogliermi in un abbraccio che non serva solo a loro, ma anche a me.
A quella parte di me che ha avuto troppo poco.
A quella bambina che ancora chiede attenzioni, che ancora cerca conferme.
Forse, con amore e pazienza, riuscirò a farla crescere.
A colmarla di ciò che le è mancato.
A rassicurarla abbastanza da farle sentire che può affidarsi a me.
Che ora posso essere io a guidare la nostra esistenza…
Con cura. Con coscienza. Con amore.
Guarire non è dimenticare. È avere il coraggio di guardarsi negli occhi e dire: “Ti vedo. Ti proteggo io, adesso.”
È un lavoro lento, pieno di inciampi.
Ma ogni gesto nuovo, ogni parola diversa da quelle ricevute, è un pezzo di catena che si rompe.
Ed è lì che succede qualcosa.
Lì, proprio nel mezzo della fatica, quando tutto sembra rallentare e anche il respiro pesa, nasce una domanda nuova.
Una domanda che non urla, ma insiste.
È fragile, ma viva. E continua a tornare, sottovoce, come se aspettasse che io finalmente la prenda sul serio: È tempo per me?
Non vorrei più cercare la risposta nell’approvazione degli altri, negli occhi di chi mi osserva, né nei gesti di chi mi ama. Vorrei imparare a darmela da sola questa risposta. Con tutta la fatica che comporta.
Per me. Per noi. Per chi verrà.