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Itaca blog
15 Ottobre 2024

Il lutto, attraverso le pagine del libro “Diario di un dolore” di C.S.Lewis

Articolo di Lara 
per il progetto Attivismo Digitale

La perdita di una persona amata, vicina o a noi cara, è un evento doloroso che prima o poi può toccarci nel corso della nostra vita.
Questo stato di dolore viene chiamato lutto, e nel DSM-5, edizione italiana, viene definito come: “Stato di chi ha perso, a causa della morte, qualcuno con cui aveva una relazione stretta. Questo stato include un’ampia gamma di risposte al dolore e alla perdita”.

Ogni individuo, con il proprio bagaglio costituzionale e di esperienze uniche, reagisce in modo diverso alla perdita. È importante notare che il lutto può manifestarsi anche in circostanze diverse dalla morte, purché legate a una perdita significativa.
Inoltre, occorre dire che il lutto è da considerarsi una condizione naturale reattiva all’evento doloroso e, come tale, non è detto che debba complicarsi. È solo in determinate situazioni che può trascinarsi in stati clinicamente rilevabili, con lo sviluppo, ad esempio, di un quadro depressivo.

Proprio perché conosciamo la morte come parte della nostra esistenza, personalmente trovo che le descrizioni narrative del lutto possano essere una modalità non solo efficace, ma anche semplice, delicata e armoniosa di comunicare le emozioni che un individuo può attraversare durante l’elaborazione di questo dolore.

A tal proposito ho trovato particolarmente toccante e onesta, la storia raccontata da C.S. Lewis nel suo libro “Diario di un dolore”, edito da Adelphi. Essendo il lutto qualcosa di facilmente condivisibile perché, come detto, può toccare ognuno, leggere un libro che ne parli, e così bene, può rappresentare allora anche un conforto, in determinati momenti della nostra vita. 

Diario di un dolore è la descrizione di ciò che l’autore ha vissuto al momento della scomparsa della propria moglie e racconta in modo chiaro gli stati d’animo che si possono attraversare durante il lutto, già l’incipit ne rende magistralmente il quadro: “Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione. Altre volte è come un’ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile.
L’immagine arriva forte e chiara, e quella coltre invisibile di cui Lewis parla è un elemento chiave anche per approcciare qualcuno che sta attraversando un lutto. Occorre, infatti, avere rispetto di quella coltre, capire che l’attenzione della persona è catturata dal proprio dolore in ogni istante, permetterle di evocare pensieri, ricordi, di chi ha perduto, rispettare i tempi di questa narrazione, senza forzature, e senza invasioni.  Spesso, l’impulso di chi sta accanto a chi soffre, è quello di volerne affrettare la guarigione, di spingerlo a star meglio il più rapidamente possibile, senza dare il tempo a quella coltre di dissolversi nei tempi giusti e naturali. Ma la coltre esiste per una ragione, è lì a proteggere e dunque va a sua volta protetta e rispettata.

Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire.” Anche questo passaggio rende evidente il ripiegamento su se stessi e sul proprio dolore e dunque la necessità di permettere a questo processo di svolgersi nel tempo necessario.

Un altro punto chiave che emerge, già evocato nell’incipit, è il coinvolgimento del corpo: “C’è un luogo dove avverto la sua assenza in modo localizzato, ed è un luogo che non posso evitare. Il mio corpo.”
Sappiamo bene quanto la somatizzazione del dolore possa essere parte integrante del lutto. Il corpo soffre insieme all’anima e anch’esso va trattato come un paziente. Bisogna ascoltarlo, prendersene cura, come quando si è reduci da un lungo stato febbrile.
Di nuovo, oggi si tende a scappare dal dolore, ad averne paura, a esortare l’altro che ne soffre (e ci spaventa) a fuggir via, a nasconderlo, a seppellirlo, e invece tempo e cura sono le parole chiave perché il processo si compia in modo sano, senza complicarsi o lasciare strascichi.
Riferendosi alle sue stesse note, all’atto (notevole e terapeutico) di scrivere tutte le sue riflessioni, Lewis lo evidenzia bene: “Spero forse che, mascherati da riflessione, i sentimenti si facciano sentire meno? Tutte queste note non sono forse gli assurdi contorcimenti di chi non vuole accettare il fatto che nella sofferenza non si può far altro che soffrire? Di chi è ancora convinto che esista un sistema (se solo riuscisse a trovarlo!) per cambiare il soffrire in non soffrire. Stringi i braccioli della poltrona del dentista o tieni le mani in grembo, la cosa non cambia. Il trapano continua a trapanare.

Ci sono molti altri nodi importanti che l’autore affronta, come il vacillare della sua fede, perché il lutto è un passaggio, l’ordine precedente viene sovvertito e quello che si ricrea non è meglio o peggio, è semplicemente diverso, tiene conto di quanto vissuto e che ci ha trasformati.
Ma ciò che più ho apprezzato in queste pagine è che attraverso il dolore della sua perdita l’autore si interroga sulla natura dell’amore per l’altro.
È noto e descritto, infatti, quanto la qualità della relazione avuta in vita con la persona che viene a mancare influenzi il nostro processo di lutto.
Ho vissuto dunque questo racconto anche come un consiglio per provare ad amare di più e meglio, per provare ad amare la realtà di chi ci è accanto e non ciò che vorremmo, ciò che ci manca, o il nostro stesso sentimento. Perché più il nostro amore per l’altro è autentico, più ci proteggerà nel momento della perdita.

Forse che non facciamo spesso questo errore con chi è ancora vivo, con chi è accanto a noi nella stessa stanza? Rivolgendo le nostre parole e le nostre azioni non all’uomo vero, ma al ritratto, al riassunto, quasi, che ne abbiamo fatto nella nostra mente?