Qualche giorno fa una persona mi ha chiesto: “Secondo te, perché ultimamente si piange di più?”.
Istintivamente ho dato una risposta banale, forse quella che daremmo tutti al giorno d’oggi: ho proposto motivazioni come la precarietà della situazione che stiamo vivendo, la guerra, la pandemia e le quarantene, ecc. Poi, però, quella domanda mi continuava a risuonare nella testa, e allora ho sentito la necessità di approfondire.
Innanzitutto, anche se sembra scontato, è giusto precisare che le lacrime non sono tutte uguali. In generale, si definiscono pianto quando sono prodotte da un’emozione e stimolate dal sistema nervoso e da una struttura cerebrale, detta amigdala.
Le emozioni, secondo l’antropologia costruttivista, non si possono pensare come fenomeni biologici, ma piuttosto, riprendendo Clifford Geertz, come “manufatti culturali”.
La società, dunque, finisce in qualche modo per disciplinare il pianto. Nella nostra, esso è sempre stato sinonimo di debolezza.
Tuttavia, gli psicologi ne riconoscono il valore positivo: il pianto, infatti, crea relazioni sociali e aiuta a liberarsi dalle emozioni negative. Inoltre, alcuni studi scientifici dichiarano che, quando piangiamo, produciamo un ormone chiamato adrenocorticotropo, che regola la gestione dello stress, e le encefaline, un antidolorifico naturale.
Nonostante le spiegazioni scientifiche, la psicologia del pianto è ancora poco definita.
Sicuramente rimane indubbio che la situazione in cui ci troviamo immersi abbia ribaltato gli equilibri sociali e personali e, come da statistiche, peggiorato la Salute Mentale di molte persone. Questo è inevitabilmente legato al pianto, in quanto manifestazione psichica.
Al contempo, però, credo che “si pianga di più” anche per un altro motivo, che mi permetto di considerare positivo: la società sta cambiando, nel mondo si stanno diffondendo pensieri nuovi, si sta cercando di condurre la mentalità collettiva verso la tolleranza e l’apertura. Da qui nasce l’idea che il pianto non sia motivo di vergogna, ma piuttosto una semplice esternazione, una comunicazione e, addirittura, una terapia.Il pianto è umano, è lo specchio del dolore, della gioia, dell’empatia, di tutte le emozioni che qualcuno sceglie di raccontare con le lacrime.
Forse, la risposta è che le lacrime sono un nuovo linguaggio, sono le parole di una generazione a cui i discorsi non bastano più. Sono il racconto di un dolore nuovo, del disagio contemporaneo, della debolezza di giovani che vivono tra la precarietà della realtà e l’apparente e mistificatoria stabilità del mondo digitale. Sono il modo più facile per spiegare la paura, l’incertezza e la fragilità.“Piangere non indica che sei debole. Sin da quando sei nato, è sempre stato un segno che sei vivo.”, Charlotte Bronte l’aveva capito duecento anni fa, ma il mondo, forse, lo sta iniziando ad intuire solo adesso.
Articolo realizzato da Carolina,
per il progetto “Attivismo Digitale“
Fonti:
https://psiche.santagostino.it/2017/08/11/perche-piangiamo/
https://larivistaculturale.com/2021/05/06/antropologia-culturale-sociologia-piangere-cultura-lacrime-come-si-piange-antropologia-attualita/