Ho un nuovo messaggio in entrata sulla casella postale, è da parte dell’università. Deve trattarsi dell’esito dell’ultimo esame.
Prendo fiato. Vorrei aprirlo subito ma ho bisogno di un attimo per prepararmi.
So che non dovrebbe avere importanza, non troppa almeno. A settembre ho iniziato l’università per la seconda volta, dopo tre mesi ho iniziato una relazione e mi sono trasferita fuori città, andando a convivere. Nel frattempo, ovviamente, lavoro. Sono tante cose, tanti cambiamenti.
Che quella mail contenga un diciotto o un trenta non deve fare differenza, io comunque mi sto impegnando. Eppure.
La apro e leggo: ventisette.
Inizialmente provo un parziale sollievo, ma poi arriva dal profondo una voce.
È quella vocina che mi segue da quando sono piccola. “Potevi fare meglio”. “Non è abbastanza”. “Non sei abbastanza”.
Dopo tre anni e mezzo di terapia, so perfettamente che non è vero, eppure quella vocina arriva lo stesso e io in qualche modo devo farci i conti.
È il 1978 quando Hamacheck propone una distinzione fra due tipi di perfezionismo: quello normale e quello nevrotico. Il primo è quella volontà sana di voler migliorare, in cui l’errore è possibilità di crescita. Il secondo, invece, è dominato dalla paura del giudizio altrui, per cui si è continuamente portati a temere il fallimento e a sminuire ogni risultato ottenuto.
Il perfezionismo nevrotico ha, naturalmente, radici nell’infanzia. Fa parte di quel bambino che cerca sempre l’approvazione dei genitori e che, per ottenerla, deve costantemente dimostrare quanto sia bravo in termini di risultati.
Nel 1990 Andy Frost propone la Multidimensional Perfectionism Scale (MPS), una scala che valuta il perfezionismo sia sul piano individuale che su quello sociale. I parametri presi in considerazione sono sei: eccessiva preoccupazione verso gli errori, standard personali, aspettative genitoriali, critiche genitoriali, dubbi riguardanti le proprie azioni, organizzazione.
Nel 1991 gli psicologi Paul Hewitt e Gordon Flett procedono a loro volta a inquadrare il perfezionismo a seconda delle sue caratteristiche, sempre attraverso una MPS, questa volta con tre parametri. Secondo loro possiamo avere un perfezionismo autodiretto, che nasce dalla volontà dell’individuo di conseguire obiettivi pressoché impossibili; un perfezionismo eterodiretto, in cui il soggetto pretende la perfezione dagli altri, proponendosi come modello; e un perfezionismo socialmente imposto, ovvero dipendente dagli standard della società.
I due psicologi hanno elaborato una scala, la Perfectionistic Self-Presentation Scale (PSPS), per valutare in che misura un soggetto presenti i tratti del perfezionista: messa in evidenza del proprio perfezionismo, evitamento di situazioni in cui c’è il rischio di apparire imperfetti e occultamento di precedenti situazioni in cui ci si è dimostrati imperfetti.
Nel 1993 David Burns parla di questo fenomeno chiamandolo perfezionismo clinico, indicando come questo abbia un ruolo maladattivo nella vita delle persone e possa avere una parte significativa nell’insorgere di alcune patologie, come depressione, disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare e disturbo di personalità ossessivo-compulsivo.
Come possiamo vedere da questo breve riepilogo di alcuni tra i principali studi in materia, il perfezionismo può sfociare in un problema ben definito e impossessarsi della nostra vita.
Proprio per questo è necessario saperlo riconoscere per tempo, sapere che quella vocina può arrivare e trovare una risposta a quelle parole che ci sussurra nella testa.
Io questa risposta l’ho trovata poco tempo fa, in alcune semplici parole che mi sono state rivolte, talmente semplici che mi sono domandata perché non me lo fossi detta prima da sola. Forse dobbiamo semplicemente trovare la persona giusta che ce lo dica: un familiare, un compagno, un amico, un terapeuta, uno sconosciuto.“Non devi essere perfetta per essere perfetta”.
Articolo realizzato da Annalisa,
per il progetto “Attivismo Digitale“