Tutto è cominciato durante gli anni del liceo, proseguendo e peggiorando, senza soluzione di continuità, nel periodo universitario. Ero attanagliata, ininterrottamente, dalla paura di poter, seppur non vi fosse una valida motivazione, perdere la memoria.
Un’ossessione si stava subdolamente insinuando nella mia testa, peraltro con scarsissima discrezione: quella di dimenticare le cose. E dunque, del tutto inconsciamente, cresceva in me l’esigenza di ripetere quello stesso paragrafo, per tre volte.
Tre, il numero “giusto”, quello perfetto, secondo parametri privi di qualunque fondamento scientifico, frutto di regole personalissime, ideate da me esclusivamente per la sottoscritta.
Se il tempo a disposizione non fosse stato sufficiente, non restava altro che rinunciare ad affrontare l’interrogazione, il compito in classe o l’esame universitario. La preparazione, a mio dire, era decisamente inadeguata, meglio desistere.
Ben presto, però, la situazione precipitò: le tre, come d’abitudine (o da rituale?), ripetizioni non erano più sufficienti ad appagarmi. Così divennero quattro, poi cinque, dopo sei, ecc., sino alla compromissione della resa della prestazione, perché ero cascata nel circolo vizioso del “più ripeto, più dimentico!”.
Del tutto inconsapevolmente, ho iniziato ad applicare le medesime regole del “ripasso perfetto” anche alla mia vita, alla quotidianità, per timore di scordarla.
All’angosciante ossessione di dimenticare le cose rispondevo, istantaneamente, con una compulsione mentale: ripetere, nella mia testa, per paura di non ricordarlo più, almeno una volta al dì (come se un medico me l’avesse prescritto!) dove stavo, in che anno, mese e giorno mi trovavo e, infine, che ora era.
Nessuno poteva accorgersene, a meno che non fossi stata io stessa a raccontarlo (cosa alquanto improbabile!), eppure la mia vita era gravemente invalidata, mi sentivo schiava di un automatismo cui non riuscivo a sottrarmi.
Le cure, nostre grandi alleate, hanno dato i propri frutti: da qualche mese non avverto più la necessità, l’urgenza ed il bisogno di ripetere, ossessivamente, quella sequela di passaggi intrisi, neanche tanto velatamente, di sete di controllo. “Uno dei tuoi rituali!”, direbbe la mia psicoterapeuta, sorridendo.
Ho finalmente ricominciato a vivere senza il perenne terrore di scordare le cose. Perché ho imparato che, anche se dovesse accadere, non costituirebbe un dramma. A chi non capita?
Ho atteso che trascorresse qualche mese prima di condividere con voi, oramai i miei confidenti preferiti, questo enorme traguardo. Non perché non avessi voglia di parlarne, tutt’altro, fremevo dal desiderio di raccontarlo. Piuttosto temevo si trattasse di una vana illusione, di aver cantato vittoria troppo presto e comunque, detto sinceramente, provavo un po’ di vergogna. Penserete sia strano, perché poi scrivo con nonchalance di impulsi, immagini e pensieri aggressivi verso me stessa e i miei cari o sessuali nei riguardi dei miei amati gatti. Dunque, riflettevo: se è vero, ma non ci metterei la mano sul fuoco, che le persone affette da Disturbo Ossessivo Compulsivo, rispetto alle altre, hanno un’abilità di memoria più ridotta, che le spingerebbe a mettere in atto rituali di controllo, tale “deficit” non potrebbe piuttosto ricondursi a una scarsissima fiducia nelle proprie capacità, tipica di noi ossessivi e causa dell’affannosa ricerca di sicurezza?
Articolo realizzato da Anna di Storie di Una Ragazza DOC,
per il progetto “Attivismo Digitale“