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Itaca blog
23 Settembre 2024

Si può stare meglio?

Se mi avessero fatto questa domanda un anno fa avrei risposto senza il minimo dubbio che no, era assolutamente impossibile, o meglio, lo era per me, per tanti altri “messi meglio” poteva non esserlo.

Per tanto tempo ha risuonato sempre la stessa domanda, con la stessa identica risposta. Partivo però da un’incomprensione di fondo: stare meglio rispetto a cosa? Alle mie spalle ci sono solo anni di non vita, di semplice sopravvivenza, e da quel fondale non si intravedono vie d’uscite perché è tecnicamente impossibile, ma la cartina è (fortunatamente) solo parziale. Per poter puntare a un meglio bisogna forse averlo intravisto in un certo momento, ma amaramente non mi era mai successo di scorgere qualcosa di diverso, o una luce che segnasse un bel momento a cui aspirare, in cui fossi libera dai troppi problemi dentro di me. Credo di essermi considerata per così tanto tempo totalmente persa e senza alcuna speranza perché ho creduto a idee sbagliate: quando si nasce, poi cresce e infine litiga con lo stesso identico disagio sotto mille sfaccettature, può apparire quasi come la nostra essenza, un pezzo di noi a cui bisogna soccombere, tanto vale arrendersi, aspettando, probabilmente all’infinito, che sparisca da solo.

Ma davvero? Dobbiamo veramente soccombere all’angoscia, alle lacrime nascoste, alle emozioni paralizzanti, al corpo che recita mentre la mente è sempre altrove nel suo universo buio e impenetrabile? Tutto questo è difficilissimo, ma c’è una cosa che è mille volte più difficile: provare a stare meglio e non adattarsi all’incubo creato e subito:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Questa frase di Calvino mi ha sempre colpita per la profondità che trasmette e perché mi sembra di aver sperimentato la prima strada; diversi anni sono trascorsi immedesimandomi e diventando io stessa il problema, e non c’era un meglio a cui puntare, semplicemente perché non era mai esistito e non credevo potesse esistere.

Adesso mi sento triste a pensare di essermi ridotta alla descrizione di persona “strana”, un extraterrestre troppo sensibile atterrato sul pianeta sbagliato, perché l’incubo esiste sempre, a volte può sembrare giusto ad un passo da me, ma tanti strumenti possono aiutarci ad addobbare l’inferno e a renderlo un po’ meno mostruoso, anzi diventa quasi il mio inferno personale, da cui ne esco e ne entro dettandole più io, e meno lui, le regole.  Ma alla fine i disturbi raccontano una marea di bugie ed è quasi rivoluzionario poter intravedere di non essere io quella strana e sbagliata, ha solo avuto il potere di offuscarmi la visione, e ci è riuscito benissimo a farmi credere che era quella la mia normalità, il mio piccolo mondo parallelo sommerso.

Adesso però non è più sommerso, posso anche uscirne e vedere l’esterno, ero talmente convinta che non ci fosse da non provarci nemmeno ad affacciarmi, e certo, lui è con me a ricordarmi che un po’ strana e disadattata potrei comunque esserlo; ma in fondo non siamo poi così pochi, in modo (diversamente) simile, ad avere queste stranezze. Se c’è una cosa per cui vale la pena provare a darsi quella possibilità di rivoluzionare un destino che pensavo essere scritto, da sempre e per sempre, forse è proprio questo: non riconoscermi più come “un” caso su un’immensità di normali, ma parte di una moltitudine con il dono di gestire le proprie debolezze, che la sfiga delle casualità ci ha assegnato, in un meraviglioso viaggio di scoperta, che non avrei mai intrapreso altrimenti. Certo, quante sofferenze avrei risparmiato se il mio inferno non fosse mai esistito, quanta fatica avrei evitato se non mi fossi ribellata a quel terrore, ma mi sarei anche persa degli scorci di paesaggio da togliere il fiato, quelli di essere visti e accettati come un’interezza e non più stranezza, ed è proprio questo il migliore regalo che il malessere potesse farmi, e le persone “normali” che non hanno questa possibilità si perdono un mondo dai mille colori scintillanti.

 

Articolo realizzato da Sara
per il progetto “Attivismo Digitale“