Com’è che diventiamo ciò che siamo?
È una domanda che almeno una volta tutti ci siamo posti.
Perché sono così ansioso e incapace di gestire lo stress?
Perché sono così chiusa in me stessa e diffidente verso chi mi circonda?
Se da un lato siamo consapevoli che non esiste una bacchetta magica per trasformarci nella persona dei nostri sogni, dall’altro vorremmo almeno capire perché ci ritroviamo a essere in un determinato modo.
Come la psicologia insegna, siamo in gran parte influenzati dall’ambiente in cui cresciamo, così come dalle esperienze vissute e dal nostro temperamento, una sorta di predisposizione genetica che ci fa essere estroversi e chiacchieroni piuttosto che silenziosi e poco inclini a socializzare. Abbiamo ereditato questi tratti caratteriali dai nostri genitori o parenti più lontani, i quali presumibilmente li hanno ereditati a loro volta.
A un livello più profondo, possono degli eventi che non abbiamo vissuto in prima persona influenzarci in maniera negativa nel nostro presente?
L’epigenetica, che studia l’influenza dell’ambiente sulla trascrizione del DNA, ha ipotizzato che in alcuni casi i traumi – con il loro evidente lascito – si trasmettano per via ereditaria da una generazione all’altra. Esattamente come per i tratti fisici.
Secondo questa ricerca, svolta nel 2014 dal Brain Research Institute dell’Università di Zurigo, a essere implicati nella trasmissione del trauma sono i frammenti di RNA, molecola “braccio destro” del DNA. I cosiddetti micro RNA di una persona che ha subito un trauma sembrerebbero tramandare alla prole alcuni geni alterati, spesso coinvolti nella reazione immunitaria e nel modo di rispondere allo stress e alla paura.
I ricercatori hanno identificato il meccanismo confrontando la progenie di topi esposti a esperienze traumatiche con quella di topi cresciuti in un ambiente sano e tranquillo. I primi avevano sviluppato comportamenti depressivi e mostravano livelli di insulina e zucchero nel sangue inferiori rispetto alla prole dei topi non traumatizzati. Inoltre, questi tratti andavano a riproporsi anche sulla generazione successiva, con un effetto “a cascata”.
Questa ipotesi suggestiva è avvalorata pure dai diversi studi condotti su figli di sopravvissuti all’Olocausto, veterani di guerra o in generale, di persone affette da Disturbo Post-Traumatico da Stress, i quali mostrano una maggiore vulnerabilità allo stress rispetto ai figli di chi non ha vissuto eventi particolarmente segnanti.
È un po’ come immaginare di aver assorbito in qualche modo i traumi repressi e insufficientemente elaborati dei propri genitori, come aver ereditato una traccia delle loro paure e sofferenze, che si sono andate a imprimere nel nostro genoma.
Per quanto sia affascinante e allo stesso tempo spaventosa questa prospettiva, si tratta di una teoria che ancora necessita di ulteriori studi e approfondimenti. Ad esempio, è difficile capire chi detenga il primato tra fattore ambientale e genetico se parliamo di figli cresciuti da un genitore che riporta PTSD. Il fattore ambientale infatti – ovvero l’essere stati a stretto contatto con qualcuno che manifesta visibili sintomi depressivi o dissociativi – può portare in un certo senso “a ereditare il trauma” per così dire per via diretta e relazionale anziché attraverso eventuali trasmissioni genetiche. Si tratta dell’annoso dibattito sul primato biologico contrapposto al primato educativo.
In ogni caso, anche prendendo per assodata questa teoria sulla trasmissibilità del trauma, sappiamo che siamo esseri dotati di quel grado di plasticità necessario a permetterci di rimodellare le nostre risposte emotive in base all’esperienza e al vissuto personale. Quando sviluppiamo un modo alternativo per affrontare le sfide, possiamo parlare di un costrutto chiamato “resilienza”, definito dall’American Psychological Association come “un processo di riadattamento di fronte ad avversità, traumi, tragedie, minacce o significative fonti di stress”.
Così come i vissuti traumatici possono essere trasmessi “transgenerazionalmente”, così può esserlo anche la capacità di fronteggiare e superare un trauma attraverso lo sviluppo di meccanismi di resilienza.
Articolo di Melanie
per il progetto “Attivismo Digitale“