
Vorrei parlare di questo libro principalmente tramite le frasi che ho trovato significative, per cercare di descrivere il più accuratamente possibile l’intensità del dolore della protagonista.
Spesso nel corso del romanzo ci fa immergere nei dialoghi fra lei e la sua mente, alla disperata ricerca di un sollievo nel mezzo di un dubbio paralizzante, un sollievo che si paga a caro prezzo: “Devi toglierti il cerotto e controllare se c’è l’infezione. Non vuoi farlo veramente, è solo un pensiero invasivo, ma non riesci a zittirlo, e magari per un attimo va via, sei di nuovo sul divano, e poi il tuo cervello dice e se ha fatto infezione? Perché non controlli? E poi ti dici che questa ferita quasi sicuramente non è infetta, ma la distanza che hai creato con quel quasi viene riempita dal pensiero devi controllare se c’è l’infezione controlla, cosi poi ci mettiamo tranquille. Dopo aver controllato torni sul divano a guardare la tv e per pochi o tanti minuti provi la scossa febbrile della tensione che cala, il sollievo di aver ceduto. E poi passano due o cinque o seicento minuti e cominci a chiederti sei sicura? E la spirale si stringe, così in eterno”. Riscontriamo la difficoltà nel tentare di descrivere con il linguaggio quel qualcosa di indescrivibile che può solo essere sentito: “Penso che sia come un incendio nel cervello. Una spirale. Vortice. Buco nero. Le parole usate per descriverlo – paura, ansia, ossessione – fanno così poco per comunicarlo”. Eppure non sono necessarie tante parole perché possiamo sperimentare la paura che sente anche tramite le immagini che il suo racconto ci scaturisce: “Ho cercato di ascoltarla ma non ero veramente in banca. Ero dentro la mia testa e un torrente di pensieri urlava che avevo segnato il mio destino non cambiandomi il cerotto per più di un giorno, era troppo tardi, e sentivo il calore alla punta del dito, e si sa che quando lo si sente fisicamente è vero, i sensi non mentono”.
La confusione, lo sfinimento, il bisogno di riposarsi, come dopo una lunga influenza: anche se non è un’influenza, è una battaglia fra sé e sé, fra le voci che ordinano cosa fare e le stesse voci che fanno sentire in colpa quando obbedisci: “Continuavo a pensare – sta succedendo – e il soggetto era troppo spaventoso ed enorme per dargli un nome”.
Viviamo insieme a lei la mancanza di controllo del “pensiero invasivo, l’unico che riesci a pensare, è il pensiero che pensi di continuo. Loro possono parlare con il tuo cervello, possono dire al tuo cervello cosa pensare ma tu no. Quindi chi è che comanda?”; ma anche il panico, come un’onda improvvisa: “Per un attimo pensi di star meglio, hai appena avuto un bel treno di pensieri, di cui tu sei l’autore. E poi provi un’ondata di nausea, un pugno che ti si stringe dentro la gabbia toracica, sudore freddo, fronte calda, e poi con una vocina soffocata da quel terrore indicibile riesci a stento a spremere fuori le parole che devi dire.”
Colpisce quando tutti intorno a lei cercano di rassicurarsi continuamente se finalmente stesse meglio “da rotta a intera, dalla debolezza alla forza”. Ma non è quello che vuole comunicare l’autore con questo libro, non ci dà una speranza rassicurante: “Sarei stata sempre così, avrei sempre avuto questa cosa dentro di me. Non avrei mai ucciso il drago perché il drago era anche me. Il mio io e la mia malattia erano legati insieme per la vita.” E non perché voglia negare la speranza ma perché vuole ritrarre un percorso disseminato di buche, paura, errori, dubbi: “Non avrei mai potuto diventare un adulto normale. Nei colloqui di lavoro mi avrebbero chiesto “qual è la sua più grande debolezza?” e io avrei spiegato che probabilmente avrei passato buona parte dell’orario di lavoro terrorizzata da pensieri che sono costretta a pensare, posseduta da un demone innominato e informe” Ed è proprio questo a rendere la storia reale, ci porta a capire come la sua vita sarà a tratti difficile ma sarà anche una bella vita, e le due cose possono coesistere, e rappresentare un lieto fine, anziché un percorso ancora in via di definizione, avrebbe banalizzato una storia che merita di essere lasciata aperta, tutto può ancora succedere: “So che quella ragazza sarebbe andata avanti, che sarebbe cresciuta, che avrebbe avuto dei figli ma che nonostante l’amore sarebbe stata troppo male per occuparsi di loro, che sarebbe finita in ospedale, sarebbe migliorata, e poi sarebbe stata male di nuovo”.
Alla fine capiamo che una via di fuga forse esiste e la può trovare, quando realizza che “una spirale diventa infinitamente stretta via via che la segui verso l’interno, ma diventa anche infinitamente larga via via che la segui verso l’esterno”.
La colonna sonora di questo libro potrebbe essere una canzone che mi rasserena sempre quando l’ascolto, Pick it up and start again: ed è forse proprio questo che bisogna fare, raccogliere i pezzi e ricominciare, perché possiamo ancora essere quello che ci eravamo ripromessi di essere, per arrivare a comprendere insieme a lei che “c’è speranza, anche quando il cervello ti dice che non c’è”.
Articolo di Sara Pagano,
dal progetto Attivismo Digitale.