Io che credevo di essere triste per sentire una singola mancanza e poi ho scoperto che nel cuore ne avevo tante di mancanze e nessuna di queste era per la persona in sé, quanto per quello che rifletteva dentro di me: emozioni, bisogni, vuoti.
Esiste una vita migliore? Ma soprattutto vorrei capire se esisto io, che vita conduco, come mi muovo nel mondo: è paradossale che per non sentirmi abbandonata ho deciso di abbandonare proprio me stessa. Allora riempire il vuoto, sentirlo e assaporarlo, assaporare la libertà, sperimentare se posso esistere da sola, è una danza da imparare. Non rinchiudermi in un vicolo cieco, in cui la perseveranza nel non lasciare andare e quel bisogno viscerale di mantenere contatto mi lascia con in mano delle ceneri.
Ho creduto che il mio mondo stesse finendo, ho provato a detestare chi mi ha inflitto le ferite senza nemmeno farci troppa attenzione, quando erano così profonde che sembravano non potersi rimarginare. Ho provato a odiare le tenebre nelle quali ho dovuto imparare a dibattermi, per l’importanza e il potere che ho consegnato ad altri per non cercarla dentro di me, per il mio valore che ho ricercato nelle attenzioni altrui. Ma non servirebbe a nulla l’odio, perché allora dovrei odiare anche me per averlo concesso, eppure è una parte di me tanto piccola quella che si sente ferita, e l’unica cosa di cui ha bisogno è molto amore.
Per questo mi concedo del riposo dalle emozioni totalizzanti e lascio la presa, mi libero del peso di accontentarmi di una piccola consolazione, mai accettabile per tutte le emozioni devastanti che crea dopo. Non l’ho stabilito io questo, perché ancora viene difficile crederlo quando la vorrei proprio tanto quella consolazione, ma l’ha stabilito il bisogno di salvarmi da altre lacrime, da momenti bellissimi che finivano troppo presto in un deserto di solitudine, dai momenti cosi traumatici da rimanere impressi dentro di me per sempre, dalle ferite che sto ancora cercando di rimarginare.
Navigare tra gli abissi non è impresa facile, solo chi si prende la briga di farlo sa che le tenebre spaventano e per affrontare il dolore ancestrale bisogna assaporare la disperazione in ogni sua sfumatura. Riempire il vuoto, sentirlo e assaporarlo, abbracciare quel buco senza fondo che parte dal profondo, che sembra del presente, ma ascoltandolo bene, le sensazioni appartengono al passato.
Ci sono alcune lezioni che solo le tempeste possono insegnare, e fra queste rientra che non ho mai veramente parlato delle mancanze che sentivo, nemmeno quando credevo di farlo, perché in realtà parlavo di me ed ancora non lo sapevo. Parlavo di quanto fossi stata ferita quando nemmeno lo ricordavo, parlavo del dolore antico proiettato come per magia nel presente, parlavo delle reazioni emotive che appartenevano alla me piccola, perché niente è mai stato veramente attuale, pur vivendolo nel presente.
Il lavoro di accoglimento delle ferite antiche, tanto dolorose da non averne neppure memoria, richiede di concederci adesso tutta la pazienza, la calma, la lentezza, l’affetto e gli abbracci che sono mancati una volta. Sono tanti i pezzettini da collezionare per arrivare alla consapevolezza che non siamo più nel passato, è un nuovo bagaglio da costruirsi, uno zaino di esperienze inedite.
È un lavoro lungo formato da tanti piccoli passi, una danza di cui devo imparare i movimenti, ma è un miracolo a cui avevo smesso di credere, quello di trovare del piacere collaterale, nel sentire di andare bene anche senza andare realmente bene. Questa nuova danza richiede di concederselo il bene, di andare a ritmo di musica, di essere fieri del duro lavoro si sta facendo e dei traguardi che sono stati raggiunti. In effetti, all’inizio anche un passo faceva paura mentre adesso c’è una piccola coreografia di cui possiamo godere: basta chiudere gli occhi, alzare la musica e sorridere perché tutto andrà bene.
Articolo di Sara
per il progetto “Attivismo Digitale”