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Itaca blog
23 Settembre 2024

Una vita borderline, da 30 anni sulle montagne russe

Se sommo le giornate passate non facendo assolutamente nulla ma bevendo caffè e fumando sigarette, metto insieme diversi anni. È questo che mi addolora di più: il tempo che la malattia mi ha fatto sprecare e che non tornerà mai indietro.

Mi sono laureata, ho iniziato a fare uno stage in una radio della città in cui vivevo, ero anche brava. Ma poi c’era una voce, La Voce, che mi distruggeva da dentro e ripeteva incessantemente che ogni cosa che facevo non aveva senso. Per questo ho lasciato il lavoro in radio, ho lasciato il lavoro nell’agenzia di comunicazione dove sono stata dopo, e quello dopo ancora.
Tutti mi dicevano che ero brava, talentuosa, capace: ma io credevo ad altro, alle atrocità che si compivano nella mia testa. Al male che mi volevo, al male che sentivo.

Vivere con un disturbo di personalità significa non avere pelle: ogni emozione, ogni sensazione, ti arriva amplificata e improvvisa, come se quello che per gli altri è un refolo di vento per noi fosse un uragano. E lo è, letteralmente.
Vivere con un’emotività così significa svegliarsi al mattino e sentirsi magari bene, dopo un’ora ricevere una telefonata e precipitare nell’angoscia, uscire di casa e incontrare la persona che ti risponde male e provare una rabbia da spaccare tutto, passare delle ore senza riuscire a fare nulla perché letteralmente non senti nulla, e se non ti senti, non sai neanche scegliere se mangiare la pastasciutta o gli gnocchi. Figurarsi scegliere dove orientare la propria vita.

Può significare al pomeriggio piangere disperatamente per 2 ore, tagliarsi, ricevere la telefonata di un’amica e uscire sorridente come se nulla fosse successo… Avanti così, ogni giorno, per mesi, anni, per una vita. Dire che è faticoso è un eufemismo. È snervante.
Ho avuto qualche anno intorno ai 30 in cui avevo un lavoro, una casa, un compagno stabile. Ma è durata poco: la paura dell’abbandono, un’altra delle caratteristiche che contraddistinguono le persone con disturbo di personalità, mi faceva essere ossessionante in ogni rapporto.

Bastava che la persona che era con me mi rispondesse con un tono sbagliato che io facevo scoppiare il mondo perché mi sentivo rifiutata. E così sono stata lasciata, e dopo sono incappata in una lunga serie di rapporti abusanti e maltrattanti, perché se non hai imparato a volerti bene, difficilmente riconoscerai chi te ne possa volere.
Ho avuto due aborti, perché per due volte ho creduto che diventare madre mi avrebbe salvato, salvo poi (per fortuna) ravvedermi e capire che diventare madre avrebbe messo in serio pericolo la vita mia e di un eventuale figlio.

Adesso, sulla soglia dei 40 anni, mi sento il residuo di questa lotta che la vita mi ha imposto fin da subito: non ho un lavoro perché mi sono licenziata sull’onda dell’impulsività del mio disturbo, fatico a trovarne un altro perché purtroppo ancora oggi, nonostante le terapie, non mi sento all’altezza di averne uno.
Ho rinunciato all’idea di avere una relazione con un compagno, perché le precedenti sono state un fallimento e so di non essere in grado di gestire la mia emotività in coppia.

Ho imparato a conoscere quei terribili momenti che durano ore ma anche giorni che fanno dire che il disturbo borderline è su un confine (border) tra nevorsi e psicosi: momenti di derealizzazione e frammentazione, in cui la realtà non mi sembra più reale e le cose galleggiano come davanti a me sconnesse le une dalle altre. Conosco i momenti in cui l’angoscia è così tanta che la mente si blocca e qualcosa in me comincia a parlare, a dire parole di cui io non conosco il senso e che escono quasi senza il mio consenso.

Una delle cose più difficili di questo disturbo, per me, è spiegarlo agli altri, far capire quanto possa essere invalidante e distruttivo.
Di solito quando sto male chiudo i ponti con tutti e con tutto. Le persone che mi vogliono bene mi conoscono solo per la parte di me che funziona, quasi a nessuno ho dato il permesso di vedermi nell’apice del dolore. Quindi, per molti la mia sofferenza è solo un racconto.

Ho il sospetto a volte, direi la certezza, che non capiscano fino in fondo come sto.
Per esempio, una delle cose più difficili per me, come per molte persone con questa diagnosi, è stare sola. Quasi sempre, quando sono sola (e purtroppo capita spesso, vivendo da sola e non avendo un lavoro), la mia mente va completamente in blocco. Mi assale questo senso di vuoto (altro criterio diagnostico) che è indicibile a parole. Vuoto è una parola troppo piccola.
Vuoto è, nella mia esperienza, una totale perdita di senso di me stessa, di chi sono, del mio passato, del mio presente, del mio futuro. Rimango completamente paralizzata senza riuscire a fare niente perché non sento niente, se non questo nulla che mi allaga. E così si perdono ore, giorni, settimane, anni. Questa condizione di totale assenza a me stessa nessuno può vederla, perché appena sono in compagnia di qualcuno è come se mi ricompattassi, come se ritrovassi un minimo senso di me stessa. Quindi inevitabilmente chi mi vede non mi vede mai in quello stato disperante e disperato in cui mi trovo quando sono da sola.

Come dicevo prima ho fatto moltissimi anni di psicoterapia, che credo siano serviti a rendermi meno impulsiva e molto più consapevole dei miei meccanismi. Nonostante questo, alcune cose sono ancora esattamente come venti anni fa, e questo mi crea una grande rabbia e un grande senso di frustrazione.
Ogni singolo giorno è una lotta, non ho un momento di tregua perché o sono in ansia, o sono triste, o sono arrabbiata, o sono disperata. Umore disforico, lo chiamano. Che al di là del nome, è una gran fatica. Certo ci sono sprazzi di leggerezza, attimi di felicità, ma sono sempre attimi, piccole luci intermittenti.

Insomma, a conti fatti la mia vita di oggi è il frutto di tutte le limitazioni che il disturbo mi ha imposto. Mentirei se dicessi che sono felice. Mentirei se dicessi che la mia vita è facile. Mentirei se dicessi che non piango quasi tutti i giorni, di disperazione, angoscia o tristezza. Eppure, ho anche alcune cose belle: un sacco di amici che mi vogliono bene, l’impegno nel volontariato, la tenacia con cui ogni giorno cerco di fare qualcosa per migliorarmi. Nonostante abbia desiderato togliermi la vita spesso, continuo a conservare quello che credo mi tenga in vita: un grande coraggio e la curiosità di sapere come andrà domani.

 

Articolo realizzato da Camilla,
per il progetto “Attivismo Digitale“

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