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Itaca blog
19 Settembre 2024

Non conta se siamo felici

Quando veniamo toccati nel nostro intimo da qualcosa di grave come un suicidio si parla di questo fatto, del tragico gesto compiuto. Nella migliore delle ipotesi, appare un piccolo trafiletto su un giornaletto di provincia. Poi il silenzio… Il vuoto.

Siamo sempre più parte di una società che non concepisce il fallimento. Non ci possiamo permettere di sbagliare, questa società non lo tollera, i canoni sono protratti al miglioramento costante, dobbiamo sempre “puntare alla perfezione”. Tutto ciò che ci circonda non fa che alimentare questo mito: social network, programmi televisivi, spot pubblicitari, riviste, ecc.

Finché qualcuno non molla e succede qualcosa d’irreversibile, tutto procede veloce, perché la società vuole questo. Andare sempre più veloci senza fermarsi mai. L’assetto sociale non si mette mai in dubbio, non si discute, non si critica. Alla persona che si suicida, si dà semplicemente l’etichetta di “malato”. Chissà perché la malattia viene sempre dopo?
Quella persona che non c’è più perché ha compiuto un gesto estremo, prima della salute ha perso sicuramente qualcos’altro. Magari ha perso il lavoro, gli amici, la famiglia, i colleghi, i genitori, gli affetti più cari, le voci delle persone di cui si fidava. Oppure a scuola ha preso dei brutti voti, le sono andati male degli esami universitari. Purtroppo penso che la scuola non educhi più alla vita, lo dico da padre di due figli. È più comodo non educare alla vita.

In tutto questo, ci sono variabili dovute al nostro passato, al presente e agli strumenti che ogni essere umano possiede. Non ci guardiamo più negli occhi, però penso che gli occhi non tradiscano, non ci mascherano. Penso addirittura che guardarci negli occhi potrebbe persino aiutarci a guarire.

Siamo figli di una società dove dobbiamo scegliere se pagare l’affitto, il mutuo o le sedute di psicoterapia. Costretti a un individualismo estremizzato per riuscire ad andare avanti tra mille difficoltà, senza poterci prendere cura di chi sgomita, arranca e soffre perché non ce la fa.
Chiedo semplicemente di non spingerci verso standard irrealistici.

Sarebbe bellissimo se, anziché chiedermi: “Ciao come stai?”, mi venisse chiesto: “Ciao, sei felice?”.
Penso che fino a quando una persona non muoia fisicamente, è difficile riuscire a capire come e quante volte questa persona “sia morta nella vita”. Questo è veramente terribile.

Articolo di Oscar
per il progetto “Attivismo Digitale“