09 Dicembre 2021

Bastava talmente poco. Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere.
Una volta, una sola volta. Invece non l’hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani. (…) è questa la normalità? La salute mentale? La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai.

Prosegue la mia carrellata di letture sul disagio psichico.
Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli (Oscar absolute2020) è il libro della serie “letture sui mattucchini” (come le chiamo io) che mi ha commosso di più. Breve storia (7 capitoli, 7 giorni di un TSO) del ricovero coatto che l’autore ha ricevuto a 20 anni dopo un’esplosione di rabbia particolarmente forte.

Eccolo allora questo piccolo grande uomo, ricoverato in una stanza insieme a 5 persone come lui: cinque persone a cui la vita procura più ferite che agli altri. Così mi piace definire i pazienti di questo reparto psichiatrico, la cui sofferenza sembra venire proprio dalla consapevolezza che Daniele, pur giovanissimo, esprime così bene: “per ora riesco a nascondere le ferite che la vita mi procura, ma non so se riuscirò a farlo per sempre”.

Ha fatto bene a non farlo per sempre, scrivendo ora, a distanza di tanti anni, questo libro che in effetti è un po’ come sbirciare, scostando delicatamente una tenda, dentro a quel nascondimento in cui tanti fragili vivono. “Ogni giorno nasco e rifaccio i conti da capo, di notte è come se morissi, pe’ rinasce la mattina dopo, forse è per questo che soffro d’insonnia”, dice nel suo delizioso accento romano Daniele allo psichiatra che lo visita.

Questo frammentarsi dello sguardo, questa realtà che si “sbriciola, smaterializzata di fronte ai tuoi occhi” è forse un po’ il filo (paradossale, un filo che unisce frammenti) che tiene insieme queste storie, in cui la pazzia ha sì il volto dell’assurdo, dell’incomunicabilità (penso ai personaggi di Alessandro e Madonnina, incastrati in una realtà altra a noi inaccessibile) ma ha anche, soprattutto, il volto di sensibilità eccezionali, fuori dall’ordinario.

Scrive ancora Daniele, narratore in prima persona di una storia che lo vede in realtà solo coprotagonista, voce di un coro inascoltato ma tutt’altro che silenzioso: “Dove altri vedevano normalità io ammiravo prodigi, eventi irripetibili. Per questa malattia misteriosa, le gesta degli altri assumevano un alone di eroismo (…). La natura m’appariva regina di bellezza, uno scrigno pieno di tesori. Tutto immenso, incredibile. Negli anni ho capito che la mia non era una malattia degli occhi, ma forse della mente.(…) La mia vita scorre su questa altalena impazzita”.

L’estrema sensibilità di Daniele incontra quelle di Giancluca, di Giorgio, di Mario, in punti infinitesimali e immensi, generati dal loro diverso sentire. “Con loro”, scrive sul finire del libro, a pochi passi dalla dimissione, “non ho avuto la possibilità di mentire, di recitare la parte del prefetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile a loro.”

Tornano i matti che non mentono, quelli di cui già scriveva Readelli nel suo “Beati gli inquieti. Ma qui, rispetto ai suoi inquieti, c’è qualcosa di più: l’urgenza della salvezza, che è quella del titolo ma è anche quella del gesto (l’unico che arriva da un curante -anche in questo libro appartenente a una categoria di inaccessibili) con cui lo psichiatra abbraccia Giorgio in una delle scene finali del libro, ma soprattutto, io credo, la salvezza che dobbiamo concedere noi tutti a noi stessi e ai nostri prossimi.

Articolo realizzato da Camilla 
per il progetto “Attivismo Digitale