06 Luglio 2022

Ho cominciato a stare male quando avevo circa 10 anni. Oggi ne ho 40, quindi posso dire che la mia vita è stata quasi interamente accompagnata dalla sofferenza mentale.

Non mi piace neanche chiamarla sofferenza mentale, è un retaggio di quella antica distinzione tra mente e corpo per cui se la malattia non è nel corpo deve essere nella mente.
La sofferenza mentale è ovunque, e soprattutto in un luogo (lo vogliamo chiamare cuore, per semplificare) dove hanno sede le emozioni. Certo anche i pensieri si rabbuiano, si disgregano, si scompongono, a volte. Ma la sofferenza non è tanto nella mente, è nell’anima, è nel senso di sé.

Ho cominciato a stare male a 10 anni, ma la diagnosi mi è stata comunicata quasi 25 anni dopo:disturbo borderline di personalità. Non che in quei 25 anni non sia stata costantemente seguita da psichiatri e psicoterapeuti, ma tanto ci ho messo a ottenerla. A volte c’è una certa reticenza da parte dei curanti nel condividere le diagnosi: o pensano che possa essere un fardello difficile da sopportare o, come spesso accade, ritengono che la diagnosi sia solo un’etichetta utile a loro operatori a orientarsi e poco al paziente.

Io invece sono una di quelle persone che crede fortemente nell’utilità della diagnosi: non solo da quando l’ho avuta ho cominciato a studiare, informarmi, frequentare gruppi online di persone come me, ma soprattutto non mi sono più sentita come mi ero sentita fino a quel momento: irrimediabilmente sola, con una sofferenza enorme che non riuscivo a spiegare. Con la diagnosi tutto ha preso posto, i puntini di un disegno immaginario si sono uniti, e finalmente ho iniziato a capirci qualcosa.
Con questo non penso che io o nessun altro ci esauriamo in una diagnosi: ogni paziente, ogni persona, è unico. Però ci sono tratti comuni: nel caso del disturbo borderline di personalità il DSM ne individua 9, e basta che una persona ne manifesti 5 per una diagnosi di questo tipo. Si capisce già come due persone con la stessa diagnosi potrebbero essere diversissime, avendo magari una sola caratteristica in comune.

Ad ogni modo, la mia storia è quella di una bambina non riconosciuta dal padre, cresciuta da sola con una madre che a sua volta aveva dei problemi psicologici e che, purtroppo, non è stata in grado di essere madre.
Non ho ricordi di spensieratezza o felicità nella mia infanzia, non ho ricordi di mia madre che gioca con me, non ho ricordi di affetto. Se penso ad allora ho solo immagini di una grande solitudine, e del mio tentativo disperato di essere ogni giorno brava per far sorridere quella madre così infelice, della cui infelicità pensavo di essere causa. Io mi sentivo un peso, e basta.

A 10 anni ho iniziato a manifestare i primi sintomi, con una forte ansia ogni volta che dovevo separarmi anche per pochi minuti da mia madre. La vita stava diventando impossibile e, per questo, fui portata per la prima volta dalla psicologa.
Da allora, ci sono andata ogni anno della mia vita fino ad oggi. Lo so, è assurdo. È anche tremendamente costoso, ma mia madre non aveva problemi di soldi. Purtroppo o per fortuna, è stato più semplice per lei pagarmi degli psicologi piuttosto che fare la madre. Peccato che non sia la stessa cosa.

Anche se ero brava a scuola, avevo degli amici, io non stavo bene: fin dal liceo ho iniziato a sentirmi un pesce fuor d’acqua, in ogni situazione mi sentivo sbagliata, di troppo, mi vergognavo semplicemente di esistere.
A 17 anni ho avuto il mio primo attacco di panico in grande stile: non sapevo neanche cosa fosse un attacco di panico e un giorno, dal nulla, ho creduto di morire. La corsa in ospedale, per scoprire che quei battiti impazziti, il senso di soffocamento, la realtà che si scollava da me non erano che i sintomi della mia mente. Da allora è iniziato il mio rapporto stabile con gli psicofarmaci, che non è ancora finito.
Dicevo che fino al liceo ero brava a scuola, avevo degli amici, anche se poi non riuscivo a fare cose che tutti i ragazzi fanno, come andare in gita scolastica o dormire fuori una notte. L’ansia era parte di me, e il mio disagio aveva effetti importanti sulla quotidianità.

All’università però tutto è crollato: non solo facevo molta fatica a socializzare con gli altri, perché pensavo sempre di non essere voluta e per questo mi autoescludevo, ma studiare mi diventava impossibile. Leggevo e non capivo, perché una voce mi diceva nella testa che non ero capace, che ero una fallita, che non ce l’avrei fatta.
Da essere prima della classe, quella su cui tutti i professori puntavano, mi sono trovata rimanere indietro con gli esami. Ho cambiato università 4 volte, ho frequentato scuole di teatro pensando di fare l’attrice, ho iniziato e mollato corsi di ogni tipo: ogni volta pensavo di stare male perché non stavo facendo la cosa giusta per me.

In realtà stavo male perché avevo un disturbo, e tra le caratteristiche del disturbo c‘è proprio la difficoltà a riconoscersi un’identità stabile: è come se noi che soffriamo di questo disturbo non sapessimo mai veramente chi siamo. Detta così sembra facile, ma cambiare idea più volte al giorno sui propri obiettivi, le proprie intenzioni, i propri progetti, non solo è snervante e logorante, ma non ti porta da nessuna parte.

Mi sentivo vuota. Non ho fatto amicizie negli anni dell’università, non ho fatto tutto quello che i ragazzi all’università fanno oltre studiare: feste, Erasmus, esperienze, lavori. Nulla.
Mi vergognavo di esistere e per questo non mi avvicinavo a nessuno, non potevo pensare di vivere senza il mio psicoterapeuta e per questo non mi spostavo.
In tutto questo, oggi posso dirlo con il senno di poi, la mia sessualità era assolutamente folle e sregolata. Solo attraverso il sesso mi permettevo di avvicinarmi agli altri: dovevo riempire quel buco che mi faceva sentire vuota e inutile, e siccome ero una ragazza carina, lo riempivo di relazioni fugaci ma assolute.
Ogni volta che incontravo un ragazzo me ne innamoravo pazzamente e follemente e pensavo che fosse l’uomo della mia vita, ci andavo a letto, iniziavo a tormentarlo per avere un rapporto stabile e immancabilmente venivo scartata e mi buttavo su un altro.
Allora non lo sapevo, ma anche la sessualità così disinibita era un sintomo di un disagio che ormai era chiaro.

Il rapporto con mia madre era estremamente conflittuale, lo era diventato in adolescenza e lo è stato almeno fino ai 30 anni: avevo in corpo tutta la rabbia per le sue mancanze, per la trascuratezza, per come mi aveva lasciata sola. E così i nostri litigi, finiti più volte coi carabinieri chiamati dai vicini, erano una lotta impari: io spaccavo tutto quello che mi capitava sottomano, lanciavo sedie, oggetti, rompevo porte.
E rompevo me: è intorno ai 20 anni che ho iniziato a tagliarmi e a farmi male sbattendo la testa contro il muro, con quei gesti di autolesionismo che sono un’altra caratteristica del disturbo. La mia disperazione non aveva un limite, e l’unico limite che sentivo di potermi dare era quello del mio corpo sofferente.
Il Centro di salute mentale era la mia seconda casa: ci arrivavo in preda al panico per avere una flebo di valium, ci venivo trascinata da mia madre durante i miei scoppi di rabbia perché mi sedassero, ci venivo di tanto in tanto ricoverata in day hospital per cicli di antidepressivi.

Articolo realizzato da Camilla,
per il progetto “Attivismo Digitale