06 Dicembre 2021

Correva l’anno 2018 ed ero convinta che la mia vita fosse finita.
19 anni e una diagnosi di linfoma erano però solo la ciliegina sulla torta di un altro anno passato a lottare contro una patologia mentale di cui ancora non riuscivo ad ammettere a me stessa l’esistenza.

Passerà“, mi dicevo, per ribattere alla vocina dentro di me che mi credeva troppo grave. Peccato che se questa scusa potevo usarla con la mia mente, non potevo fare altrettanto con il fisico.
Da quella notizia il mondo crollò: chemioterapia e radioterapia, effetti collaterali come la perdita dei capelli mi sembravano cose inaffrontabili.

Eppure adesso non vorrei parlare della malattia, ma preferisco osservare la situazione da un punto di vista diverso, confessando qualcosa che trovavo inaccettabile: in quel momento il linfoma  mi parve quasi una cosa positiva, mi offriva una distrazione dai miei pensieri che mi ossessionavano, e magari avere a che fare con un problema “reale” avrebbe annullato gli altri problemi meno comprovabili all’esterno. E quando nei mesi seguenti tutti mi parlavano di come sarebbe stato bello tornare alla vita di prima,  ero terrificata dalla possibilità che tutto tornasse alla normalità. In fondo, almeno in parte, i miei soliti pensieri erano stati “sostituiti” da un problema molto ingombrante.

Nei mesi delle terapie mi sono spessa sentita “di  cristallo”, credo che sia la prerogativa per ogni persona che si trovi ad affrontare una patologia fisica. Eppure, oggi mi chiedo, esiste una malattia più reale di un’altra? Nella mia esperienza non riesco a vedere differenze, se non che  quando ero “veramente” malata nessuno mi ha mai detto “questi farmaci sono solo un veleno, non ne hai bisogno, sospendili”, cosa che invece è continuamente successa con gli antidepressivi. Se dovessi fare un bilancio del mio stato d’animo in entrambe le situazioni non esiterei un attimo ad affermare che la mia condizione mentale, che trovavo ingiustificabile perché difficile da comprendere, mi ha creato sofferenze di gran lunga maggiori.

Oggi mi dispiace molto per la me del passato che ha pensato di poter scappare dall’inferno interiore rifugiandosi in quello esteriore, che per quanto grave era accettabile, dimostrabile e soprattutto degno di attenzione, ma non si fugge da niente, tutto ci accompagna e niente ci definisce.
Non mi sento definita dal linfoma perché mi sbagliavo: il 2018 ha posto le basi per una rinascita. E’ stato proprio da quella fatica immensa, durata anni, per rimettere insieme i pezzi di quello che mi era accaduto che ho capito che forse potevo aspirare a qualcosa di più, concedendomi una possibilità.
Ho provato molta indecisione riguardo allo scrivere o meno questo articolo perché non è mai bello riconoscere la versione di sé del passato in tutte le sue debolezze e differenze, pero in fondo mi ha condotto fino a qui,  seppure con una serie continua di sbagli e passi falsi, intraprendendo percorsi sbagliati, con conoscenze che non avevo.

Forse è necessario passare dalla melma, per iniziare piano piano ad avvicinarsi in punta di piedi al proprio mondo interno, perché tutti ci ripetono che la salute fisica sia la cosa più importante, ma mi sento di dire che non è cosi: la salute fisica senza quella mentale non vale niente, è come avere qualcosa di prezioso ma inutilizzabile, anche con un certificato di remissione dalla malattia non ero nemmeno lontanamente la persona che volevo essere.

Da dove si riparte quindi in questa confusione?
Proprio dal caos, dai pezzi persi lungo la strada, personalmente anche dal sentirmi sfigata perché tutti questi problemi non sono socialmente accettabili quando si è cosi giovani.
Ho fatto dietrofront per dare udienza alle mie emozioni, ai drammi, al dolore, alla mancanza di senso e all’incomprensione, per ripartire e vedere se ci fosse nascosto qualcosa di buono in mezzo al casino.
Non sopporto l’idea di trovare il positivo ad ogni costo anche nelle sfortune, però se non avessi sperimentato il dolore nelle sue diverse forme sarebbe stato più complesso trovare una via d’uscita dalla nebbia fitta in cui ero persa: la paura e la mancata accettazione erano nascoste dalla negazione.
Non intendo cadere nel retorico di quanto una malattia fisica ci renda necessariamente persone migliori che apprezzano ogni momento della vita, perché la mia (amara) scoperta è che non è cosi e va benissimo, forse non c’è bisogno di vivere al massimo ogni momento, in fondo basta reagire ad ogni difficoltà con gli strumenti che ci costruiamo giorno dopo giorno.


Però a una sola cosa sono riconoscente: è possibile mettere il punto a situazioni che appaiono insostenibili, e ovviamente non è necessario affrontare una malattia per accorgersene, ma ora posso dirlo che no, la mia vita non finì quell’anno: da quel momento si sono poste le fondamenta per ricominciare, e chissà quante altre volte ricomincerà.

Articolo realizzato da Sara 
per il progetto “Attivismo Digitale