13 Ottobre 2022

All’alba del 2020, un “evento traumatico” di portata mondiale fa irruzione nella vita delle persone, sottoponendole a una fonte di stress persistente che mette a dura prova la Salute Mentale collettiva. Stiamo parlando, naturalmente, della pandemia di Covid-19. Trascorsi più di due anni dal suo inizio, viene da chiedersi che impatto abbia avuto questo avvenimento sulla popolazione generale e, in particolare, sui soggetti più fragili: le persone con disturbi psichiatrici.

Tra queste, ci sono i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) da contaminazione o washers/cleaners.
Si tratta di un disturbo caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni legate a un’intensa paura di contrarre un’infezione o di contaminarsi tramite sostanze “sporche”.
Da alcuni studi è emerso un peggioramento del quadro clinico dei pazienti con DOC, in particolare del sottotipo washer/cleaner, in seguito alla pandemia.
Cosa è accaduto a questi pazienti? Ne parliamo con Marco Papalino, medico chirurgo specialista in Psichiatria, attivo nella divulgazione di temi inerenti alla Salute Mentale.

Partiamo dal principio, cos’è il DOC da contaminazione?

Il DOC è una patologia che si caratterizza per la presenza di ossessioni e di compulsioni.
Le ossessioni sono pensieri, idee o suoni da cui è difficile liberarsi perché sono persistenti. Nel linguaggio tecnico queste manifestazioni si chiamano egodistoniche: lontane dal proprio essere.

In altre parole, una persona con DOC riconosce i pensieri come intrusivi ed estremamente lontani dal proprio modo di pensare e di vivere e, per questo motivo, vive una profonda ansia e angoscia.
Dall’altra parte, poi, ci sono le compulsioni che consistono nella necessità di mettere in atto una serie di comportamenti e di rituali che hanno il compito di contenere l’ansia e l’angoscia.
Le ossessioni si possono ricondurre a diversi ambiti; nel caso della contaminazione si tratta di una paura profonda di entrare in contatto con agenti infettivi. Questo può indurre a mettere in atto una serie di espedienti (usare fazzoletti per toccare le maniglie di strutture pubbliche, non toccare col dito il tasto dell’ascensore, pulirsi spesso le mani) per ridurre la possibilità di un contagio.

Come nasce un DOC da contaminazione?
Esistono due cause principali riconosciute: la genetica e i fattori ambientali.
La genetica si riconduce alla familiarità, cioè, se nel nostro albero genealogico sono presenti individui che hanno sviluppato malattie psichiatriche, questo può rappresentare un fattore di rischio per l’insorgenza di un disturbo mentale nei discendenti.
Ma c’è anche un aspetto positivo. Se un parente ha risposto bene a terapie farmacologiche e/o psicologiche, in virtù del fatto che si condivide un certo patrimonio genetico, anche gli altri componenti della famiglia possono rispondere bene alla stessa terapia.
I fattori ambientali sono numerosi e vanno dalle complicanze ostetriche (problemi durante o dopo la gravidanza), allo stress o all’uso di sostanze, che possono determinare una più rapida insorgenza di determinati sintomi. La somma di fattori genetici e ambientali può determinare l’insorgenza di un DOC.

Come possiamo descrivere la giornata di una persona con questo disturbo?
Si parte sempre da una situazione di tensione. Per tenere sotto controllo i pensieri ossessivi, si sente la necessità di mettere in atto una serie di rituali che riguardano il lavaggio e la pulizia. Questi rituali possono portare, ad esempio, a passare diverse ore nella doccia per eseguire gesti ripetitivi che rappresentano una forma di controllo sull’ansia da contaminazione. Se capita che, per qualunque ragione, non si riesce a portare a termine il rituale in maniera corretta, questo comporta uno stato d’ansia che persiste per tutto il giorno.
A questo si può aggiungere il cosiddetto “pensiero magico”. Si tratta di pensieri intrusivi che si manifestano nel momento in cui un rituale non viene eseguito nel modo giusto. Il senso di incompiutezza può portare a credere che possa accadere qualcosa di male a un proprio caro, nonostante le due azioni non siano direttamente collegate.

Questi comportamenti possono essere oggetto di stigma sociale.
Il vero problema della Salute Mentale è che molti termini che definiscono un disturbo psichiatrico sono di uso comune: “mi sembri un po’ bipolare”, “sei un po’ ossessivo”; questo lede il significato profondo di questi termini che si può comprendere solo quando si tocca con mano il sintomo e la patologia.
Nel caso specifico del DOC, dire: “eh, ma sei ossessionato da…”, “stai sempre a pensare a…”, equivale a sminuire il disturbo; si tratta, infatti, come abbiamo detto prima, di pensieri che il paziente non controlla.

Parliamo della pandemia di Covid-19. Cosa è accaduto ai pazienti? Quale è stato l’effetto delle campagne legate al lavaggio e alla pulizia?
La pandemia ha determinato un aggravamento dei pensieri ossessivi in questi pazienti. Uno studio italiano, pubblicato nel periodo del primo lockdown, ha preso in esame un campione di pazienti affetti da DOC che riguarda la contaminazione ed è emerso che, paradossalmente, l’esacerbazione riguardava chi aveva completato il percorso psicologico/farmacologico ed era riuscito a raggiungere una situazione di benessere. L’esposizione al continuo e tartassante messaggio di lavarsi bene le mani e di farlo in una certa maniera, ricordiamoci che c’erano dei veri e propri tutorial su come lavarsi le mani, e l’invito a usare i guanti in qualunque circostanza non ha fatto altro che aggiungersi a un’attenzione già importante ai rituali di pulizia.

Quali sono state le conseguenze sul rapporto con i conviventi durante il lockdown?
Il lockdown ha fatto sì che i rituali di pulizia fossero più visibili agli occhi dei conviventi che, talvolta, sono stati anche coinvolti nella messa in atto di alcuni comportamenti per rimuovere l’eventuale contaminazione ad esempio quando si rincasava dopo aver passato del tempo fuori casa.

Quali difficoltà hanno avuto questi pazienti una volta terminato il lockdown?
Ho avuto pazienti che, in virtù di questo disturbo, avevano smesso di avere una vita sociale. Dopo il primo lockdown c’è stato un periodo in cui i mezzi di protezione erano consigliati ma non obbligatori: questo ha determinato una grandissima paura di uscire e di tornare in situazioni sociali perché non c’era la possibilità di essere protetti dal rischio di contaminazione.

La paura di uscire ha avuto un impatto sul percorso di cura?
Un altro grande problema di non riuscire a uscire di casa è stato il non potersi interfacciare con lo specialista, venendo a mancare un sostegno fondamentale per questo disturbo.
Il Covid-19 ha fatto esplodere la telemedicina (il servizio che permette la cura di un paziente a distanza). Tuttavia, non è stato facile riorganizzare il servizio terapeutico per riuscire a raggiungere tutti i pazienti. Il grosso limite della telemedicina, infatti, era che non tutti gli utenti avevano una connessione a internet efficace o fossero abili dal punto di vista tecnologico e questo ha portato alla brusca interruzione dei percorsi di cura.

Parliamo delle cure: si può guarire da questo disturbo?
Sì. Il DOC (che sia di contaminazione o un altro sottotipo) può trarre giovamento sia dalla terapia farmacologica misurata sulla persona, che serve ad abbassare i livelli di ansia e a ridurre per intensità e frequenza la comparsa di pensieri intrusivi, che dalla terapia psicologica. Particolarmente efficace è la terapia cognitivo-comportamentale. La combinazione delle due terapie può rappresentare un supporto concreto nella cura e nel trattamento di questo disturbo.

Un’ultima domanda: quali consigli possiamo dare a chi convive con una persona con DOC?
È una delle domande che i parenti rivolgono più spesso. Non a caso, una parte della terapia riguarda il cosiddetto parent training, cioè una sorta di psicoeducazione per i parenti (spesso i genitori o i conviventi) per comprendere come affrontare il disturbo. Questo perché, spesso, il sintomo non viene compreso e viene sminuito. È importante comunicare che la persona avverte i pensieri ossessivi come estranei e quindi dire: “non ti ossessionare, non fare così” non fa che sminuire il suo stato d’animo, portandola ad allontanarsi da chi gli ha rivolto questo invito perché si sente incompresa.
E quindi vale la regola dell’ascolto empatico: se una persona presenta un disagio vuol dire che quel disagio per quella persona è importante.
È altrettanto importante, però, non lasciarsi coinvolgere, altrimenti si rischia di diventare parte del problema e uno strumento che tiene in piedi i rituali.
Si può, invece, palesare l’impossibilità di essere di aiuto fino in fondo se non attraverso il supporto e la vicinanza, rimandando alla persona che esistono delle cure, che non si è gli unici a provare ciò che si prova, che ci sono altre persone che avvertono lo stesso disagio, che può essere trattato in modo efficace.


Articolo realizzato da Francesca,
per il progetto “Attivismo Digitale

Fonti:
https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyt.2021.673161/full