09 Maggio 2024

Era il 2014, prima liceo, ultimi dieci minuti di lezione di storia, l’interrogazione stava volgendo al termine. Prima di sapere il fatidico voto, la professoressa pose ai miei compagni e a me un’ultima indimenticabile domanda: “Secondo voi ragazzi qual è stata la vera rivoluzione? Per esempio, la macchina a vapore di Watt del 1778 o l’elettromagnete del 1825?” – riferendosi alla prima rivoluzione industriale. C’è chi disse “il telaio meccanico del 1785” e chi “la locomotiva di Stephenson del 1829”. Non c’era una risposta sbagliata, tutte erano corrette ed intelligenti, degne di un valido e positivo riconoscimento. Toccava a me, alla domanda risposi dopo qualche secondo con questa frase “La macchina a vapore o il telegrafo elettronico del 1829 sono ottimi risultati di un insieme di idee e calcoli. La vera rivoluzione però, secondo me, è avvenuta nella mente delle persone”. Ammiravo lo sguardo sconcertato dei miei compagni nel non capire il perché io avessi incluso la mente nella mia risposta. In seguito, la professoressa citò alcuni illustri personaggi che erano partiti dallo stesso tipo di pensiero per formulare le loro teorie, come “Il darwinismo di Dewey” e “la vera rivoluzione spirituale di Andreï Makine” – dalla sua citazione “la rivoluzione spirituale parte dal cambiamento di sé stessi prima ancora della trasformazione della realtà circostante”. Non sapevo assolutamente chi fossero, ma ne ero incuriosita. La domanda formulata dalla mia professoressa fu fondamentale per me nel capire quanto la mente fosse magnifica, anzi, incommensurabile, ovvero quantitativamente irriducibile a qualsiasi termine empirico di riferimento, tanto grande da non poter essere misurato.

Quella risposta tornò alla mia attenzione qualche settimana fa durante l’edizione mattutina del telegiornale. Molte informazioni sulla guerra israelo-palestinese passavano in rassegna e venivano commentate dagli esperti. Si accese una lampadina nella mia mente. La mia grande passione per la psicologia e le neuroscienze unita ai miei studi universitari sul pensiero politico, la geopolitica e le relazioni internazionali mi hanno portato, in quel momento, a formulare un’ipotesi difficile da comprendere o da attuare, ma di straordinaria potenza.

Ovvero, che per arrivare ad un accordo di pace bisognasse partire dalla mente, affinché si potessero accettare ugualmente i dolori di entrambi i popoli al fine di vedere, finalmente, una terra unita in una divisione di confini condivisa.

Una persona può chiedersi giustamente “ma cosa c’entra lo studio del cervello e della mente con la guerra a Gaza? Come può, la mente, essere il medium tra due popoli distinti e in lotta da anni? Come può qualcosa di non tangibile e spesso irrazionale agli occhi di molti favorire la pace? È possibile. Perché? Perché tutta la nostra vita è racchiusa li dentro, i nostri ricordi, il nostro dolore, i momenti di gioia o disperazione vivono dentro di noi. In Geopolitica, si potrebbe parlare di Human Security ancora più nello specifico, mettendo al centro l’individuo e le sue emozioni, da diventare il mezzo per lo studio di una risoluzione di pace o una formula di sicurezza internazionale.

La meraviglia di un mondo conosciuto da pochi (la mente) legato inconsapevolmente ad una terra magica, la Terra Santa, potrebbe portare non solo alla formulazione di una risoluzione di pace, bensì ad un nuovo modo di vedere la vita. Come un nuovo Umanesimo, un qualcosa che vada oltre il concetto Human Security, corpo e mente, scelte e reazioni. La mente è sempre stata il principio di tutto, luogo di formulazione di ogni singola idea, giusta o cattiva che sia. Non è mai stato rilevante il processo mentale successivo la formulazione e l’implementazione di un programma politico. Si, le così dette “conseguenze”, ma da un punto di vista più profondo, come la percezione dell’evento reale potesse cambiarci interiormente, addirittura trasformare e modificare la nostra struttura cerebrale. Le formulazioni di idee e progetti sono state sempre legate a ciò che si ha provato. Il disastro nel mondo nasce dal disastro nelle menti delle persone. La conoscenza di sé, lo studio approfondito della mente e del cervello potrà prevenire un sacco di ingiustizie. Negli anni la mente non è mai stata messa al primo posto, ed è per questo che conoscersi e conoscerci può essere solo che un vantaggio per la vita. È importante capire che la sofferenza di un bimbo israeliano che ha perso la mamma durante un bombardamento è uguale a quella provata da uno palestinese nel vedere gli orrori della guerra sulla propria pelle. Non c’è distinzione nel dolore, nella gioia, nella paura. La mente unisce non divide.

Come possiamo partire dal cervello e dalle sue funzioni per capire meglio il conflitto e una sua possibile risoluzione? Nel 2023 si è svolta a Milano la 15° edizione della Conferenza Mondiale, progetto di Fondazione Umberto Veronesi, Science for peace and health dal titolo Missione: EVOLVERE! La scienza per il superamento dei conflitti. L’intervento di Michela Matteoli, direttrice del programma di Neuroscienze dell’Istituto Clinico Humanitas è stato estremamente prezioso. La Dottoressa Matteoli spiegò le sorprendenti caratteristiche del cervello applicate al contesto attuale di guerra in Medio Oriente. Dalle sue parole: “Si sottolinea subito un’attitudine alla cooperazione e all’altruismo ben visibile nel comportamento cerebrale. […] Il neuroscienziato Donald Pfaff sostiene che l’altruismo non sia una risposta all’autorità morale, ma un istinto radicato nel nostro cervello: gli esseri umani si immedesimano tra loro e sono “cablati” per comportarsi in modo altruistico. Siamo in grado di entrare in empatia con la sofferenza altrui e tradurre queste informazioni in azioni compassionevoli. Cooperare ci fa stare meglio, al contrario del conflitto che ha conseguenze negative sul Sé nel lungo termine. Il conflitto è normalmente innescato dalla percezione di un danno o di un dolore, fisico o sociale, da parte dell’amigdala, centro delle emozioni, di cui una delle funzioni è rilevare la paura. Nel momento iniziale del conflitto i livelli di cortisolo aumentano velocemente inducendosi così l’individuo ad agire in modo rapido. Ma se lo stress perdura a lungo si ha un effetto negativo sull’ippocampo (struttura volta alla formazione delle memorie e dell’orientamento spaziale), chiamato anche “brain fog” – confusione mentale. A questo punto dovrebbe attivarsi la corteccia prefrontale, ma i suoi processi neurali si chiudono, rallentando l’acquisizione di informazioni in modo coerente e impedendo il controllo degli impulsi. La guerra porta inevitabilmente le persone a scappare, e molti, a combattere.” La Dott.ssa Matteoli spiegò inoltre come l’anfetamina “captagon”, sostanza utilizzata in guerra dai combattenti, alteri i neurotrasmettitori nel nostro cervello: “Da una parte mette la persona in una situazione psicologica simile a quella dei pazienti maniacali, con un senso di onnipotenza, euforia e abbandono di ogni inibizione. Dall’altra, aumenta la vigilanza e la resistenza alla fatica. È chiamata anche la cocaina dei poveri.” Conclude affermando che il cervello non sia fatto per lavorare in situazioni di conflitto prolungate: “è ingannato da stimoli innocui ritenuti pericolosi, il cortisolo in circolo danneggia le funzioni dell’ippocampo, facendo così fatica a formulare pensieri lucidi.”

La guerra, oltre ad avere devastanti e talvolta irrimediabili ripercussioni sulla vita degli individui coinvolti, è un evento di enorme portata in termini di conseguenze psicologiche. Il trauma al quale sono esposti tutti, in particolar modo i bambini il cui cervello è in pieno sviluppo, è una drammatica ferita nell’anima. Si parla di depressione, di PTSD, disturbo da ansia generalizzato o disturbi dissociativi che possono portare la persona a sviluppare una dipendenza da alcol e sostanze stupefacenti.

Freud trattò il tema della guerra in numerose sue opere come in “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte” del 1915 o “Il disagio della civiltà” del 1930. Freud, pur ritenendo che non esistesse alcuna speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini – le così dette “psicosi dell’odio e della distruzione” citate dal Neurologo in una lettera in risposta ad Einstein circa “la possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini” – mostrava comunque un’inclinazione sottile alla positività. Egli sosteneva che l’aggressività poteva essere gradualmente interiorizzata grazie all’impatto evolutivo del processo di civilizzazione e allo sviluppo delle identificazioni fondate sui “legami emotivi tra gli uomini” e sulla “condivisione del valore della ragione” e del pensiero.

Per concludere, si dice che la speranza di una vita migliore non muoia mai nel cuore delle persone. Guardando, però, i bimbi palestinesi e israeliani negli occhi, attraverso le foto o i video di testimonianza, vediamo una luce fioca, debole, alimentata dalla sensazione di inerzia che li spinge a continuare a vivere, nell’attesa della prossima bomba. Quei bambini saranno gli adulti del futuro, coloro che o porteranno avanti questa terribile disputa perché “non conosco altro” o che, grazie all’aiuto della Comunità Internazionale attraverso aiuti umanitari, si fideranno al valore della Conoscenza. Il “Sapere”, la “Conoscenza” sono più forti di qualsiasi parola d’odio, di qualsiasi razzo o bomba. L’Illuminismo è stato il periodo culturale che ha dato vita alla Ragione, alla Coscienza, alla “Vita Interiore”. Per questi bambini c’è bisogno di luce, ma non quella di un fuoco che divampa dalle case o dalle scie dei razzi che loro probabilmente scambiano per stelle cadenti, è necessaria quella luce culturale, quell’istruzione di cui tutti hanno diritto. La Conoscenza sarà l’unica vera forza che li renderà per sempre liberi. Liberi di esprimersi, di opporsi e soprattutto di Convivere insieme. Di accettare gli errori del passato, da entrambe le parti, per costruire un futuro luminoso basato sullo studio dell’uomo nella sua completa e magnifica interezza.

Articolo di Arianna
per il progetto “Attivismo Digitale