20 Ottobre 2021

Me la autodiagnosticai, ormai era chiaro, poi ne ebbi conferma dalla prima psichiatra a cui mi rivolsi: bulimia nervosa.
Mi ci vollero anni per guarire, forse più di dieci. E anche dopo aver sconfitto il sintomo, rimasi psicologicamente dipendente. Ho cominciato a sentirmi completamente libera solo alcuni anni fa.

Inutile dire quanto ne sia felice e quanta gratitudine serbi per i medici che mi aiutarono, gratuitamente, grazie al sistema sanitario nazionale. Vivere e curarsi in quegli anni è stato durissimo, sia a causa della malattia, di per sé totalizzante, sia per l’enorme senso di solitudine, inettitudine e vergogna che provavo. Emozioni di cui in parte ero responsabile io, perché non di rado mi succedeva di invitarle e coccolarle, ma, altre volte, erano loro a farsi strada dall’esterno finendo per annidarsi dentro di me.

Bulimia significa ‘gran fame’, più propriamente ‘fame da bue’. La lingua ha i suoi perché, vero? Avrete sentito usare l’aggettivo ‘bulimico’ nella sua accezione non letterale: «maschio sessualmente bulimico», «un talk show onnivoro e bulimico», «con un mercato bulimico e una competizione sempre più schiacciante», «la cultura di massa sempre più bulimica e meno esperta», «mass media bulimici»[1], ecc.

‘Bulimico’ è oltre la semplice idea di eccesso, è quasi sempre dotato di una forte connotazione dispregiativa. Sta a indicare un’esagerazione che va contro la logica, contro l’etica e contro il buon gusto. Ciò che è bulimico è incomprensibile, è ingiusto, fa schifo. Anche la persona affetta da bulimia è in grado di suscitare simili impressioni e giudizi. E attenzione, mi guarderei bene dallo stabilire una relazione di tipo causa effetto tra quanto ho affermato sopra, circa il significato della parola e l’uso che si sente fare del suo aggettivo, e il modo in cui certe persone reagiscono nei confronti di chi soffre di questa patologia. Ho semplicemente voluto mettere in evidenza fatti della nostra lingua e della società che io, mio malgrado, non ho mai potuto fare a meno di notare.

Mi capitava di confidarmi: mi sembrava onesto avvertire i cari, gli amici, o addirittura alcuni conoscenti, di questo mio enorme problema. I più comprendevano, alcuni invece non riuscivano a nascondere i propri sentimenti: disapprovazione, nel migliore dei casi. Raccoglievo rimproveri. Strano e, probabilmente, inopportuno scriverlo proprio qui, converrete però che altre patologie “godono” di un certo rispetto o di fama, magari sotto forma di stereotipi: la letteratura, i film, la musica ci offrono non pochi esempi di opprimenti depressioni, romantiche schizofrenie, simpatici soggetti affetti da disturbo ossessivo compulsivo. La bulimia, invece, non riscuote troppa attenzione. Non fa parlare di sé, perché quasi non si vede: il corpo, esteriormente, si mantiene più o meno nella normalità, la vita sociale in qualche modo continua, gli impegni solo raramente vengono posticipati, gli esami universitari sono quasi sempre superati brillantemente. Qualcuno si chiede se questa bulimia sia davvero una malattia o sia un vizio per gente un po’ perversa e senza forza di volontà.

La verità è solo una: questa malattia distrugge corpo e anima, materia e sentimento. È un disturbo molto complesso, multifattoriale, la cui cura effettiva richiede interventi mirati in diversi ambiti medici. Chi ne è affetto sperimenta la prigione della dipendenza – uno tra tutti, il senso di enorme frustrazione per non potersi sottrarre al sintomo –, danni sull’organismo comportati dalla compulsione, soprattutto se quotidiana e prolungata (danni ai denti, all’esofago, all’apparato digerente, circolatorio e riproduttivo), immenso senso di colpa.

Molte persone ne soffrono in silenzio, per vergogna. Autostigmatizzarsi è massimamente nocivo e, ahimé, quasi inevitabile. Per affrontare questa patologia e avviarsi verso la guarigione sono necessari ingredienti che in buonissima parte deve mettere il malato e chi lo sosterrà professionalmente. Non essenziale per guarire, tuttavia, desiderabile, utile, piacevole, motivante, sarebbe l’empatia da parte dei consimili. Ed ecco ciò che infine voglio dire: il male che colpisce me è sì una questione individuale, poiché sono io a soffrire, tuttavia è anche una questione generale. Perché? Perché questo specifico male è generato in una società che non solo mi fornisce un contesto adatto a che esso si manifesti e attecchisca, ma che a sua volta subisce uno scacco o, se preferite, si ritrova con un anello più debole (perché una persona bulimica, anche se quasi sempre puntuale ed efficiente, è pur sempre una persona malata), e inoltre, tale società, se continua ad agire con indifferenza e disprezzo, perde senza nemmeno accorgersene una preziosa opportunità: quella di migliorare se stessa.

Articolo realizzato da Alessandra
per il progetto “Attivismo Digitale

[1]     Ammetto di aver consultato il corpus dell’italiano online: http://corpora.dslo.unibo.it/