07 Aprile 2022

Molteplici sono le sfumature e le conseguenti denominazioni di disturbi che un ambiente emotivo famigliare di scarsa od erronea validità può causare, come ad esempio la recente identificazione della dinamica del Childhood Emotional Neglect, spesso indicato con l’acronimo CEN, che dall’inglese viene tradotto come “trascuratezza emotiva”.
Questo fenomeno prende origine nei primissimi approcci alla dimensione interna del bambino, nascendo durante la fase di educazione al sentire ed al sentirsi. Tramite un processo osmotico, infatti, i genitori trasmettono al piccolo la propria conoscenza, profondità e concezione di ciò che viene banalmente identificato come emozione, rischiando però di impartire anche le nozioni confuse o sbagliate che il tutore ha appreso per tendenza o per esperienza personale.

L’esempio più eclatante e semplice comprende l’intera gamma di frasi contrarie al pianto, come la negazione dell’importanza (“non c’è motivo di piangere”) e la discriminazione (“i bimbi che piangono sono più brutti”) di tale atto. Il futuro adulto non potrà quindi che trovarsi scisso tra, da una parte una pressione biologica e fisiologica che vuole, catarticamente, dare libero sfogo alle emozioni negative per ripristinare quelle invece in contrasto, e dall’altra il radicato stereotipo che il pianto si trascina da secoli di storia educativa, ovvero i sentimenti di vergogna, repressione ed inadeguatezza circostanziale.

Tale contrasto può tuttavia portare ad episodi di rabbia, aggressività e persino agiti istrionici, poiché l’individuo si sente impossibilitato nel liberare le sofferenze che avverte dentro di sé. Nei casi più gravi sono stati osservati addirittura depressione, disturbi di personalità, anaffettività ed incapacità di instaurare legami stabili nel tempo e nella costanza.

Quest’ultima conseguenza sopracitata è la prima inclinazione che un bambino inserito in contesti di scontro e scarsa risonanza emotiva manifesta fin da subito, seppur con le sporadiche eccezioni delle cosiddette amicizie “storiche”. I numerosi studi concernenti le conseguenze che una separazione genitoriale ha sul figlio dimostrano una coerenza ben solida nell’affermare che le relazioni amorose di quest’ultimo saranno con altissima probabilità turbolente. Entrando nello specifico, spesso il figlio di separati attua veri e propri piani di allontanamento, causati dalla sensazione di incomprensione da parte del partner o dal bisogno di evasione. Egli tenderà a riflettere sulla propria vita tutta la frustrazione, il disagio e la rabbia che il suo esempio di amore gli ha mostrato. Inoltre, come dettano le leggi della psicologia, il bambino tenderà da adulto a ripetere i propri schemi comportamentali, a prescindere dalla figura che si troverà di fronte, creando così una dinamica di solitudine nella quale la sola vittima è sempre lui, in doppia misura (prima come figlio, e poi delle sue stesse scelte sbagliate nel rapporto amoroso). Come ci si sente ad essere stazioni di passaggio che, pur dando il massimo delle proprie capacità, vedono le persone scivolare via nel tempo? Come ci si sente ad avere un mondo dentro, un insieme di sogni e paure che inibiscono l’abbandono emotivo, e non riuscire a comunicare né spiegare tale problema?

Il tragico sentire che una disgregazione del nucleo famigliare porta non può essere accettato né processato: è un’ingiustizia. Si tratta di un evento contro natura, contro i propri desideri e contro l’apprendimento della dimensione relazionale. Spesso, i reduci di una brutta separazione, si mostrano molto dubbiosi, cinici, vulnerabili e sopraffatti da un eccessivo e smisurato senso di responsabilità nelle loro storie. Cercano in tutti i modi di non riprodurre il modello genitoriale, essi eviteranno anche di cogliere i pochi (ma pur sempre presenti) aspetti positivi che avrebbero potuto vedere; pertanto applicheranno il principio d’esclusione per il quale se in quel modo le cose sono fallite ed hanno ferito qualcuno, tutto ciò che si rifà ad esso è errato. Le urla di mamma e papà, le loro notti in letti separati, le risposte taglienti e le discussioni quotidiane risuoneranno per sempre, seppur inconsciamente, tra lo stomaco e l’intestino del piccolo che, anche una volta adulto, si sentirà frutto di un amore sbagliato (e non proibito, questa volta). Si innesta qui il secondo principio, quello delle profezie che si auto-adempiono. Figlio di separati rivive dinamiche dolorose ed instabili nella propria vita amorosa e si condannano vittime eterne di un circolo vizioso dove l’amore bello, quello genuino, quello ricco e travolgente, colmo di passioni e follie viene completamente estraniato dalla persona e concepito come irraggiungibile, come terreno da lui non percorribile.

Nell’infanzia sono radicate tutte le basi sulle quali poi, con l’esperienza ed il carattere, scriviamo le nostre idee ed i nostri gusti. Quando ci troviamo una traginfanzia alle spalle, sogneremo inevitabilmente la relazione consistente e vera, profonda, di grande rilevanza psichica per sentire le mattonelle che una volta si sgretolavano al nostro passaggio sono invece ora in grado di reggerci saldamente, ad ogni passo, ad ogni salto, ad ogni caduta. Dall’altra parte – poiché vi è sempre un lato alternativo della medaglia – serviranno smisurati pazienza ed amore. Il partner che ha sfortunatamente osservato un modello sbagliato di amore va trattato esattamente come sarebbe stato giusto venisse trattato al momento dell’apprendimento, se non con addirittura maggiore cautela poiché ormai, ineludibilmente, una cicatrice c’è. E brucia, e persiste.

Fortunatamente va riconosciuto alla società il merito di aver cambiato la propria ottica riguardo queste persone, poiché un tempo venivano considerati figli del mistero, circondati da un’aura negativa che i pregiudizi del momento e la concezione di famiglia sopra a quella di vero amore richiedevano. Oltre al danno la beffa, spero abbiate pensato: tant’è vero che il senso di colpa regna sovrano nell’intima psiche del povero sventurato. Innanzitutto, io sono in colpa perché sono nato ed ho turbato equilibri; secondariamente, perché se la mamma ed il papà insistono nelle loro liti è a causa mia; terzo luogo, perché quando uno dei due cambia casa è perché l’aggiunta della mia presenza ha fatto collassare il loro sistema; conseguentemente la quarta fonte di tale sensazione nel figlio, quella del malessere che si protrae negli anni seguenti una separazione; sentirò la colpa di allontanare il/la mio/mia ragazzo/ragazza, che ferisco, per quanto mi impegni a fare il contrario; alla fine di tutto questo processo di colpevolizzazione, avvertirò anche una mancanza nei miei stessi confronti, ovvero la colpa di non esser stato in grado di trovare qualcuno per cui un cambiamento da parte mia potesse partire. La cosa più tragica, in questo stormo di dolore e sofferenza, è che il bambino che vedeva piatti rotti, sentiva le grida e si addormentava tremando, non ha colpe. È l’unico non responsabile e anche quello che ci rimette di più.

“I ragazzi selvaggi” è il nome che diverse testate giornalistiche, siti web e anonimi interlocutori ci hanno attribuito. Selvatici, “di persona o gruppo, che vive lontano dai centri urbani […] o che si esclude dai rapporti umani per innata selvatichezza di carattere e rozzezza di costumi”, dal dizionario italiano. Selvaggi, come gli animali che non hanno nessuno, per scelta o per imposizione, cui poter rendere conto, la cui descrizione spesso prosegue con i termini “feroce”, “solitario”, “brutale”. E invece no. In tale definizione sono due gli errori, che è importante riconoscere ed evitare.

Il primo, il meno grave, di natura semantica. Abbiamo considerato i termini più frequentemente associati alla parola “selvaggio”, ma mi viene spontaneo domandare e domandarmi: chi ha deciso che i lupi sono brutali? Perché qualcuno o qualcosa che trova rimedio nel vivere al buio, nel parlare alla Luna, nel muoversi in silenzio e nel rimanersene in disparte viene definito come selvaggio? Perché non è invece visto come introspettivo, meditativo, quieto, solitario? Perché il conforto che offre l’assenza di suoni, rumori o voci, nonché il silenzio, deve per forza apparire come una condizione nella quale ci siamo trovati invece che, più verosimilmente, quello che abbiamo volontariamente e consapevolmente scelto? Nella letteratura mondiale e di qualsiasi epoca la natura ha offerto ausilio tanto all’uomo quanto all’animale sofferente, esausto, pensieroso: e se il termine “selvaggio” significasse invece, molto semplicemente, appartenente alla realtà selvaggia, nonché quella naturale? Dove vigono principi e leggi, pochi e chiari, e pertanto non è né “bestiale” né “feroce”?

Il secondo errore risiede invece nell’ontologia del concetto stesso. Qualunque sia l’attributo che balza alla mente dell’abile scrittore, qualunque sia la definizione si voglia dare o la visione intesa riguardo il figlio di separati, perché è egli stesso identificato come parte del suo problema? Il ragionamento gode di una semplicità e linearità che chiunque, anche di primo acchito, è in grado di afferrare: due persone incompatibili concepiscono una creatura. La creatura nasce, ed un equilibrio che si sarebbe rotto a priori, collassa. La creatura soffre. Dov’è, all’interno di questa semplice catena di passaggi, il ruolo causale o associativo della creatura?

Come unica plausibile conclusione sopra il tema dell’etichetta intendo sottolineare la fierezza che dovrebbe invece originare dai nomignoli che i figli di separati sentono da anni venirgli appiccicate con la colla stick sulle spalle e sulla schiena. Selvaggio: sì, perché la realtà più autentica e muta degli elementi naturali è rassicurante. E quando dovevo essere rassicurato, mamma e papà erano troppo presi dal parlare di soldi, tradimenti, denunce e screditi. Selvatico: sì, perché per quanto sarebbe stato bello, le regole su di me non hanno funzionato. I miei modelli non sono stati quelli canonici.

Eppure eccomi qui. Solitario: certo – a falsi miti e false speranze sia sempre scelta la mia fedelissima persona, che troverà sicuramente qualcuno da cui essere accompagnata, e che saprò identificare dal momento in cui amare non sarà uno sforzo. Il tentativo empatico ed estraniante del vestire panni altrui può essere sufficientemente valido da rischiare anche in questa circostanza. Affinché l’immedesimazione possa avvenire è sicuramente indicato parlare in prima persona, proviamo pertanto a riflettere su quanto segue: come posso amare se non sono stato amato in modo genuino? Come posso dimostrare se non mi è stato dimostrato? Come posso originare, plasmare, accudire, nutrire e coccolare un amore se, io, l’amore non so cosa sia? O, addirittura, se l’esempio che ne ho avuto è stato talmente distruttivo e disfunzionale da portarmi a credere che possa astenermi, che non ne sia in grado, che sia futile? Come nella maggior parte delle situazioni emotive travagliate, relazionali o personali che siano, anche qui è consigliato un consono e calibrato percorso psicoterapeutico e, specialmente, è consigliato scegliere una persona in grado di restare quando proveremo ad allontanarla, anche senza rendercene conto (e sarà lei ad accorgersene, a cogliere il nesso tra un pretesto qualsiasi ed un semplice momento di vostra paura), essendo un tipico pattern dell’individuo la cui sfera emotiva è stata usata per giocare a schiaccia-sette. Scegliete una persona che non ha paura delle vostre paure; che sappia accarezzarvi dove brucia, che non teme chiedere; una persona che sappia e che voglia comprendervi. Scegliete il missionario che giocherà anima e corpo per ripristinare il normale funzionamento affettivo-relazionale del vostro ragionare. Ma, ancora meglio, sedetevi. Sarà lei a cercarvi, trovarvi e scegliervi. Tentate solo di cambiare, ogni giorno, mediante lo sforzo di aprire millimetro dopo millimetro la teca del vostro stomaco a questa persona. Perché quando l’amore ricevuto ha soppresso il cuore, l’amore da dare si sente proprio lì: tra lo stomaco e la gola.


Articolo realizzato da Maria Vittoria Zanrè,
per il progetto “Attivismo Digitale